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Di Giacomo Caudo
La paventata abolizione del numero programmato in Medicina di stamane non è altro che una mera illusione che tutti possano diventare medici e soprattutto bravi medici. Sposare la mission più nobile che esista, quella di salvare il prossimo o tutelarne la salute, si scontra con un’agguerrita voglia di trovare un lavoro stabile, sicuro, redditizio e di prestigio quale oggi risulta ancora essere, nell’immaginario collettivo, la figura del medico, specie dopo la crisi economica internazionale degli ultimi anni. “Il medico è sempre un’ottima professione” è la frase che molti genitori dicono ai propri figli, pronti a investire ingenti risorse per superare corsi di formazione e tentare l’ingresso nella tanto ambita facoltà a numero programmato. Ora sembra scomparsa nel medio periodo questa utile quanto opportuna e preziosa selezione che garantisce alla base non solo una vera voglia di diventare medico da parte degli iscritti ai test, alla luce dello sforzo che ció comporta, ma soprattutto una qualità di studenti giunti al percorso universitario dopo aver studiato mesi o anni materie scientifiche con una preparazione, impensabile nel caso in cui si aprisse il cdl a tutti. Nè credere di poter fare una scelta di chi deve proseguire nei primi anni universitari è la soluzione ottimale, perché la quantità di studenti sarebbe tale da ingolfare le lezioni e il lavoro dei docenti: immaginiamo classi e aule intasate da migliaia di corsisti. E chi non merita di andare avanti, che farebbe? Del resto, sembra talmente evidente l’assurdità di una tale repentina scelta del Governo, giustificata da una possibilità di studio per tutti, ma accompagnata da immediate negative reazioni da parte di associazioni, sindacati, dalla Fnomceo oltreché dall’opposizione politica, che gli stessi ministri hanno già fatto una rettifica nell’arco di una mattinata. Hanno specificato che si tratta di un percorso lungo, che ancora non ci sono dettagli e modalità operative, dunque sembra più un proclamo giornalistico privo di qualsivoglia reale programmazione strategica. Sta di fatto che abolendo eventualmente il numero cosiddetto “chiuso”, chi si laureerà in medicina troverà comunque uno sbarramento al momento dell’ingresso nelle scuole di specializzazione, crocevia necessario per la prosecuzione della carriera in sanità. Aumenterebbe la discrasia, già esistente, tra chi completa un percorso universitario di laurea e chi deve inserirsi nel mondo del lavoro: perchè gli accessi alle specialità sarebbero, come sono, limitati e se non si diventa specialista, non si puó far parte del Sistema Sanitario Nazionale; si potenzierebbe il pericoloso “imbuto”, il limbo in cui le nuove generazioni rimarebbero “stagnanti”, in attesa di un imprescindbile completamento di un iter formativo comunque iniziato. Urge al contrario tutelare i nostri giovani già medici oggi e quelli venturi, le loro competenze, capacità e aspettative: come ha ribadito lo stesso presidente della Fnomceo Filippo Anelli, al momento sono ben 15mila i laureati e abilitati in Italia alla ricerca di lavoro e probabilmente molti di questi saranno costretti ad andare all’estero per trovare un’occupazione lavorativa ovvero per specializzarsi. Non possiamo allora permettere, nè ora nè tantomeno domani, di perdere le nuove leve, le nostre risorse umane che hanno il merito di aver studiato ma la sventura di ritrovarsi in un “perverso sistema di esclusione”. Un destino inesorabile ed inevitabile nel caso in cui ad entrare negli atenei saranno centinaia di migliaia a fronte di poche migliaia di posti di specializzazione disponibili. Una differenza abissale che decreterà un totale fallimento per la prossima classe medica, un surplus di laureati senza lavoro e potenziali migranti. Tantissime pergamene di laurea, ma pochi medici. Insomma una paventata abolizione tra illusioni e false speranze.