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Di Salvatore Rotondo
La disuguaglianza rappresenta il veleno che intossica la nostra società.
A livello mondiale l’ingiusta distribuzione della ricchezza è stata ampiamente confermata dall’ultimo rapporto Oxfam 2019 (LINK). In esso si conferma che l’1% più ricco del Pianeta detiene quasi la metà della ricchezza aggregata netta totale (il 47,2%, per la precisione), mentre 3,8 miliardi di persone, pari alla metà più povera degli abitanti del mondo, possono contare appena sullo 0,4 per cento.
Ogni giorno nel mondo muoiono 10 mila persone perché non possono permettersi cure sanitarie. E 262 milioni di bambini non vanno a scuola. È matematico che l’ingiusta distribuzione della ricchezza potrebbe essere risolta in parte se l’1% dei più ricchi pagasse lo 0,5% in più di imposte sul patrimonio.
In Italia questo problema fu percepito fin dagli anni cinquanta. Ma solo il 1978 vide la nascita del Sistema Sanitario Nazionale con la legge Anselmi N° 883. Questa si proponeva il superamento «degli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del paese», «la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro» e il mantenimento «dell’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio». Ma dai dati raccolti fino al 2018 non sembra rispettare del tutto queste premesse. Il sistema sembra vivere una realtà schizofrenica dove in termini di risultati si registrano valori indiscussi di elevati livelli professionali da parte degli operatori con una speranza di vita tra le più elevate al mondo, a fronte di un’ottimizzazione dei costi che non riesce a decollare, di finanziamenti che si contraggono sempre di più e della ricchezza media delle famiglie che decresce progressivamente tanto che in Italia un milione di famiglie risulta troppo impoverita per curarsi.
L’Italia spende 31,3% in meno di quanto non facciano i paesi del blocco occidentale, anche se stranamente per qualità delle cure restiamo ai vertici europei. Nel Bel Paese la quota delle famiglie che ha avuto problemi economici è circa il 6%. Ma se in Trentino Alto Adige sono appena sopra al 2% e in Piemonte meno del 3%, in Calabria però la percentuale sale a oltre il 12% delle famiglie, mentre in Sicilia e in Sardegna si assestano rispettivamente nel 10% e nel 9%. Il Mezzogiorno è sicuramente più in difficoltà, ma i problemi sono ubiquitari, in Umbria, sono poco meno del 10%, mentre in Liguria sono oltre il 7% di famiglie costrette a subire disagi economici. Questo impoverimento porta ad un inevitabile rinuncia alle cure: è stato calcolato che circa il 17% delle famiglie, oltre 4 milioni, ha cercato di risparmiare rinviando a tempi migliori una visita o un accertamento.
Il risultato di questi problemi economici si riflettono sul profilo dello stato di salute degli italiani che, come dimostra la statistica, cambia significativamente in funzione di dove si risiede, del livello economico e culturale.
Al Sud a 65 anni di età l’aspettativa di vita è di tre anni in meno che nel resto d’Italia. E se al Nord in media si può sperare di vivere in buona salute fino a 60 anni, nel meridione questa aspettativa si riduce a 55 anni, toccando il minimo di 52 anni in Calabria.
Confrontando questi dati nel tempo si evince che al Sud l’aspettativa di vita è tornata indietro ai livelli del dopoguerra, con Campania e Sicilia su valori uguali a quelli dell’EST Europa (Bulgaria e Romania), mentre a Trento e nelle Marche l’aspettativa di vita è paragonabile a quella degli svedesi.
Le potenzialità assistenziali del pubblico si sono progressivamente ridotte e in troppi, quindi, non hanno la possibilità di rivolgersi al privato con conseguenze importanti sullo stato di salute. Infatti con un reddito superiore alla media si cominciano ad accusare i primi acciacchi a 70 anni. Per i redditi più bassi, invece, si inizia a stare meno bene tra i 60 e i 64 anni. Se abiti al Sud hai 3-4 anni in meno di aspettativa di vita rispetto alle regioni più ricche. Se poi sei poco abbiente e non hai un elevato livello culturale non è difficile che la tua aspettativa di vita si riduca di ulteriori 5-6 anni.
Siamo quindi molto lontani dai propositi che avevano ispirato la riforma della Anselmi nel 1978. Ma nonostante queste restrizioni la nostra sanità, grazie ai livelli professionali degli operatori e alla capacità tutta italica di arrangiarsi con le poche risorse disponibili riesce a competere per eccellenza con i migliori in Europa.
Pur con le marcate differenze di latitudine e di potenzialità economica infatti per aspettativa di vita media nazionale siamo secondi solo alla Spagna. Senza disabilità ci supera solo la Svezia. Per quanto poi riguarda i tumori l’Italia ha una mortalità inferiore alla media europea. In Italia i tassi di sopravvivenza dopo l’infarto sono i migliori del mondo occidentale.
Il XIII rapporto C.R.E.A. Sanità (Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità) dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” di Roma (LINK) ha descritto tutto questo. Ma ha evidenziato pure il progressivo calo della spesa pubblica per la sanità fin dal 2009 che è arrivato a configurare oggi un quadro, in alcuni casi, molto vicino a quello dei paesi dell’Est Europa.
Il 23 gennaio 2019 verrà pubblicato il XIV Rapporto Sanità, dal titolo: “Misunderstandings” (Incomprensioni) e a giudicare dalle premesse non sarà molto confortante.
E’ il momento che i politici italiani si pongano una domanda: Non è forse arrivato il tempo per tornare a investire sulla sanità pubblica interrompendo questa pericolosa china prima di raggiungere il punto di non ritorno per cercare di riequilibrare il divario tra nord e sud mettendo gli italiani sullo stesso piano in tema di salute?