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Di Marco Cerrito
*Cardiologo Emodinamista A. O. Papardo -Messina
La lotta al forame ovale pervio (FOP) è una moda che imperversa a partire da un episodio di grande respiro mediatico che ha toccato la curiosità e l’attenzione di moltissimi italiani. Correva l’anno 2011 e il calciatore Cassano, subito dopo essere sceso da un aereo, veniva colpito da una lieve ischemia cerebrale con successivo riscontro di FOP.
Da quel momento possiamo dire che è scoppiata una vera e propria “epidemia” di forami ovali pervi, accompagnata da incessanti richieste di esami diagnostici (Doppler transcranici, ecocardiografie transesofagee, RMN, studi genetici per trombofilia…), volti a cercare, caratterizzare, definire, stadiare per lo più delle volte il NULLA assoluto…
Ma come si combatte efficacemente questa fobia dilagante?
Probabilmente solo con buonsenso e corretta informazione.
Cos’è il forame ovale pervio (FOP)?
Il FOP deriva da un incompleto processo fusione (che normalmente si espleta nella vita embrionale o perinatale) di due strutture membranose (il septum primum e il septum secundum), poste a separazione tra i due atri del cuore. Quando questo processo di formazione non si completa del tutto, permane una piccola pervietà, un pertugio molto sottile, che, in determinate condizioni, consente una comunicazione “paradossa” tra il flusso venoso, che proviene dall’atrio destro, e il flusso arterioso, che proviene dall’atrio sinistro.
Il forame ovale pervio (FOP), non va confuso con il difetto interatriale (DIA). Sono infatti in realtà due entità del tutto distinte: mentre il DIA è da considerarsi una condizione patologica di importanza variabile in misura alla dimensione ed all’impegno emodinamico, il FOP è una mera caratteristica anatomica parafisiologica ed abbastanza diffusa nella popolazione.
Il 30% della popolazione sana ha un FOP e la maggior parte delle persone non lo scoprirà mai.
Ciò significa che su 10 atleti agonisti, 3 gareggiano brillantemente e vincono medaglie nonostante il FOP, così come su 10 donne che partoriscono spontaneamente 3 di queste lo fanno nonostante unFOP, e che, insomma, su 10 pazienti che giungono alla nostra attenzione per qualsiasi sintomo in 3 avranno il FOP.
Questo dato ci fa capire che il riscontro occasionale di FOP in pazienti che non abbiano una diagnosi di ischemia cerebrale confermata da un neurologo è un dato assolutamente privo di ogni interesse e che ha inutilmente sottratto per anni risorse al sistema sanitario (RMN, ETE, TCD, etc) ed a tutti noi senza alcuno scopo.
Nonostante le perplessità della comunità scientifica internazionale in merito, a tutt’oggi possiamo ragionevolmente affermare che Solo i pazienti in cui sia stata posta una diagnosi di ictus criptogenetico (30-40% di tutti gli ictus), e quindi da causa sconosciuta, hanno indicazione a proseguire l’iter diagnostico con esami di secondo livello per una diagnosi indiretta di shunt da possibile FOP, partendo da un doppler transcranico con microbolle e solo in seconda istanza, esclusivamente in caso di positività di quest’ultimo, un ecocardiogramma transesofageo, al fine di effettuarne diagnosi di certezza e valutarne le caratteristiche anatomiche.
A completamento dell’iter, il successivo screening del profilo genetico trombofilico potrebbe permettere di definire la terapia medica ottimale post impianto di protesi percutanea.
“Dottore, mi hanno detto che ho un ANEURISMA del setto interatriale che può esplodere!”
Per aneurisma del setto interatriale (ASA) si intende solamente una lassità del setto interatriale, con determinate caratteristiche ecocardiografiche ( appare assottigliato e “sbandiera” tra le cavità atriali con una escursione maggiore di 10 mm circa). Ad oggi, anche in questo caso, il riscontro occasionale in assenza di una diagnosi di ischemia cerebrale è di per sé privo di significato patologico e non pone indicazione neppure alla ricerca della possibile associazione con il forame ovale pervio.
“Dottore mi hanno dato l’aspirina a vita perchè ho il buco al cuore!”
L’assunzione di aspirina in prevenzione primaria è ormai controindicato perché non protegge dall’occorrenza di eventi ischemici, ed espone, per giunta, a complicanze emorragiche.
Inoltre, è ancor più importante sottolineare, a mio parere, che il forame ovale è una mera “Porta” che consente ad eventuali emboli formatisi nel circolo venoso (per lo più quello degli arti inferiori) di accedere al circolo arterioso. Pertanto, nell’eventualità che si ritenga necessaria una terapia in prevenzione primaria per l’ischemia, questa dovrebbe essere effettuata con farmaci anticoagulanti e non con antiaggreganti, poiché quest’ultimi non hanno alcuna indicazione nella profilassi e terapia delle trombosi venose.
Ma fortunatamente credo che nessuno medico si permetterebbe mai di condannare ad una vita di anticoagulante un paziente che non ha mai manifestato alcuna patologia.
“Dottore mi hanno trovato il foro al cuore e non posso fare mai più sforzi!”
Nel mondo ci sono milioni di agonisti con il forame ovale pervio, che affrontano attività fisiche di tutti i generi.
Allo stesso modo anche in gravidanza il riscontro occasione di FOP non rappresenta un’indicazione al taglio cesareo.
E’ comunque pur vero però che, sebbene non sia tecnicamente controindicata, l’attività subacquea con ausilio di bombole a profondità superiore a 18 metri andrebbe sconsigliata perché espone ad un aumento del rischio di embolia.
“Dottore ho il mal di testa e mi hanno trovato un FOP!”
Nei pazienti emicranici con o senza aura, in assenza di sintomatologia neurologica focale di verosimile genesi vascolare, non è giustificato l’avvio dell’iter diagnostico finalizzato a ricercare il forame ovale pervio, anche in presenza di piccole lesioni multiple gliotiche della sostanza bianca alla RMN cerebrale. E’ opportuno sempre che questo reperto sia interpretato e contestualizzato da un neurologo perchè possa avere il peso di una reale diagnosi di ischemia cerebrale.
“Dottore ma il mio buco è grosso!”
Sebbene la dimensione ed il grado dello shunt giochino un ruolo nella possibile embolizzazione paradossa, tuttavia questi parametri non rappresentano una indicazione ad intervento di occlusione percutanea del difetto nei pazienti che non hanno diagnosi di stroke.
“Si ma io ho un sacco di mutazioni genetiche per trombofilia!”
Anche questi dati, in assenza di stroke, non pongono alcun tipo di indicazione diretta a trattare pazienti con FOP.
Sono estremamente rari i casi di pazienti con diagnosi di embolia periferica, sindrome platipnea-ortodeossia, embolie associate a interventi chirurgici e IMA, in cui il PFO potrebbe aver avuto un ruolo significativo e, anche in questi casi, il riscontro della pervietà va considerato a seconda del caso specifico per non incorrere nella trappola di puntare il dito sul FOP e distogliere l’attenzione dalla ricerca di altre cause patologiche, spesso ben più gravi.
In conclusione, la forsennata ricerca del FOP in pazienti che non abbiano mai avuto un episodio di embolizzazione paradossa, primo tra tutti l’ictus, è una operazione non solo inutile ma spesso dannosa, poiché in questi casi al reperto di un FOP non conseguiranno indicazioni terapeutiche, nè di tipo farmacologico, nè interventistico.
Un comportamento di questo tipo si traduce in un esempio tipico di overdiagnosis, che oltre a rappresentare uno spiacevole spreco di risorse, spesso genera nel paziente un mixing nebuloso di ansia e convinzioni erronee (derivanti da un flusso di informazioni inesatte) che influiscono pesantemente sulla psiche fino a sconvolgerne inutilmente lo stile di vita.
Diversamente, nei casi in cui sia stata fatta una diagnosi riconducibile ad un’embolia paradossa, l’intervento di occlusione percutanea del PFO rappresenta una valida opportunità per escludere ulteriori shunt e scongiurare la possibilità che l’evento ischemico possa ripresentarsi.
Ad oggi questo intervento viene praticato nei laboratori di emodinamica da cardiologi interventisti mediante una procedura di circa 20 minuti, eseguita in anestesia locale, da un accesso percutaneo nella vena femorale largo pochi millimetri, e con il supporto dell’ecocardiografia intracardiaca transvenosa che permette di evitare di sottoporsi contestualmente ad un esame transesofageo e ne minimizza quindi rischi e fastidi. Il tempo di degenza successivo all’intervento è di 24h.