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di Salvatore Rotondo
Non crediate che si tratti di una vittoria per il Sistema Sanitario! La terza sezione civile della Cassazione, con la sentenza 10424/2019, depositata il 15/04/2019, ha accolto il ricorso dei parenti di una signora, morta per un tumore nel 1997, a cui per un errore di valutazione clinica era stata comunicata tardivamente la diagnosi di tumore maligno, condannando ASL e la struttura ospedaliera di Lecce al risarcimento, anche se la paziente sarebbe comunque deceduta in conseguenza del male incurabile.
Infatti è stato sancito che la mancata o tardiva diagnosi di una patologia inguaribile può determinare una lesione del diritto all’autodeterminazione riguardo alle scelte che il paziente farà nell’ ultimo periodo della vita.
In pratica la Suprema Corte ha stabilito che il ritardo diagnostico ha prodotto una perdita diretta di un bene reale, cioè il diritto di autodeterminarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto. La lesione di tale libertà, è rimasta, nel caso in oggetto priva di ogni considerazione, mentre si tratta di una situazione meritevole di tutela al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta. E’ questo l’aspetto che il legislatore ha tenuto in grande considerazione per tutelare la libertà dell’autodeterminazione dell’individuo in un particolare periodo della sua vita (es.: legge 38/2010 sulle cure palliative). Con questa sentenza si sancisce cioè il diritto alle alternative esistenziali che il paziente ha diritto di opzionare nell’ultimo periodo della sua vita. Poco conta che la malattia inguaribile condanni ad una fine sicura in tempi brevi. La paziente avrebbe avuto diritto a fruire della salute residua coscientemente al fine di programmare consapevolmente la fruizione della sua salute residua.
Questa la sentenza, ma nella pratica clinica quotidiana va detto che troppo spesso i medici prendono decisioni importanti, eventualmente ritardando procedure diagnostiche invasive che sono gravate più da complicanze che da vantaggi per il paziente. Quello che a volte viene scambiata per indolenza, rappresenta invece una presa di coraggiosa posizione nei confronti della malattia manifestatasi nel singolo paziente. A volte il postergare un esame è vero che potrebbe ritardare una diagnosi, ma è anche vero che nella gran parte dei casi risparmia al paziente probabili complicanze e dall’altro consente alla sanità pubblica una oculatezza nelle spese.
Purtroppo è difficile stabilire a priori tutto. Certamente col senno di poi tutto è più facile e apparentemente più immediato, ma davanti al paziente nel corso della visita, non conoscendo i risultati degli esami chiunque troverebbe difficoltà insormontabili a prendere una decisione. Eppure vi sono dei medici che tali decisioni le prendono quotidianamente nel rispetto dell’etica per un corretto rapporto col paziente e per evitare atteggiamenti propri della medicina difensiva. Però sono sentenze come queste che deviano la motivazione e l’entusiasmo degli operatori sanitari che vedono messi a dura prova la propria professionalità e la propria capacità di scegliere senza l’influenza di sentenze di tal guisa.