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di Filippo Cavallaro
Nella scaffalatura vicino al salottino, c’è una zona dei libri di filosofia politica, tra questi una raccolta di “Lettere” edita nel 1996 da Sellerio, che formano un testo coerente di politica familiare, economia domestica, scelte educative, basato sull’esperienza di vita dell’autore, Antonio Gramsci, costretto a tenere i legami con parenti ed amici in forma epistolare, perché in carcere.
Dalle lettere si comprende che per superare le molte censure, fascista nella spedizione, sovietica nella ricezione, comunista per la pubblicazione spesso lo stile è criptico ed i riferimenti a momenti di vita familiare e di attività comuni legate a raccontarsi ma di sapere come crescono i figli e come stanno in salute i familiari. Massimo è l’interessamento ed i consigli per guidare lo sviluppo psicofisico dei figli che non può seguire. Forte la consapevolezza delle censure: «Io sono sottoposto a vari regimi carcerari: c’è il regime carcerario costituito dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo, ecc … quello che da me non era stato preventivato era l’altro carcere, che si è aggiunto al primo» (19 maggio 1930).
La mia attenzione nella lettura va ad un primitivo limite che lo aveva vincolato, forse il limite che costringendolo sin dall’età di due anni, aveva dato la struttura portante, di metodo, al suo pensiero ed alla sua crescita culturale: la malattia di Pott. Citando Mauro Ceruti direi che il vincolo è la possibilità, citando l’apostolo Paolo “la virtù si perfeziona nella debolezza”.
Nelle “Lettere” descrive che in famiglia tutti si prodigavano ad aiutarlo nelle cure, nelle terapie. La madre gli strofinava le spalle doloranti con una soluzione acquosa di iodio, il padre ed il fratello lo imbracavano per tenere in trazione la schiena sempre più piegata. Il dolore aumentava se andava a giocare con i coetanei, e non poteva esprimere la “balentia” a cui aspiravano gli altri bambini. Lo stesso dolore veniva alleviato se giocava con gli animali, imparando le loro strategie di movimento e di azione. Ha cinque anni e i compagni di gioco sono galline, ma anche ricci, serpi ed addirittura un falco.
Il riferimento in uno scritto al “busto steccato” con cui lo imbracava suo padre, serve per indicare come gli intellettuali (stecche) sgorgano dal popolo – massa, ma rimangano a contatto con esso (pelle) per indirizzarlo, guidarlo alla “weltanschauung”.
Sostiene per l’educazione dei figli l’attività in palestra, come lui fece a nove anni, costruendosi in casa attrezzi poveri, secondo la tesi per cui “non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni riferimento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens”.
Apprezza il sole al confino di Ustica, e le camminate elioterapiche alternate allo studio, camminate che poi avranno un piccolo spazio senza sole in cella o in cortile a Turi. Spazio che con lo studio e le lettere si dilata, anche se l’idea del limite è sempre presente, pure immaginando suo figlio Delio, “il piccolo si metterà un piedino in bocca per la prima volta… atto che segnerà la presa di possesso dei limiti estremi del suo territorio”. Limiti di cui prendere possesso, consapevolezza.
La malattia sempre presente, sfiancante, menomante, limitante ma l’affermazione continua che fino al limite del sè, fisico, psichico, culturale, morale, spirituale si è responsabili e governanti dei propri domini.