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La meritocrazia in Italia è diventata un grave problema nazionale, tale da rappresentare uno dei più importanti fattori frenanti la competitività del Paese che si ripercuote a cascata sia sulla formazione e sul lavoro.
La meritocrazia rappresenta quel modello con cui si promuove il principio del merito attraverso una concezione sociale per la quale si ritiene legittimo che successo, prestigio e potere si possano liberamente conseguire attraverso le doti individuali, la capacità e i risultati.
Per merito, quindi, si intende una modalità organizzativa volta a far ottenere riconoscimenti premianti finalizzati a arricchire la qualità del prodotto e a incentivare la motivazione ed il coinvolgimento di chi lavora con l’obiettivo del miglioramento continuo dei processi. Va da sé che il successo è raggiungibile da chiunque abbia i requisiti di merito e che ciascun individuo è artefice del proprio destino (massima auto-responsabilizzazione) se è rispettata una imprescindibile condizione di partenza: la garanzia per tutti di poter competere alla pari.
Il blocco del sistema meritocratico in Italia è difficile da misurare. Alcuni indicatori però evidenziano come nel nostro Paese il meccanismo meritocratico sia, in buona misura, blindato. La scarsa mobilità sociale è uno di questi. Infatti tanto più è bloccato il cosiddetto “ascensore sociale”, tanto meno la società può considerarsi aperta e può offrire opportunità al di là della condizione di origine. Negli ultimi 10 anni la probabilità per le famiglie italiane di spostarsi in modo permanente verso classi di reddito migliori è stata solo del 5%. Una ricerca di Federico Fubini ha rilevato che quasi tutte le attuali famiglie più ricche di Firenze erano le stesse di quelle che occupavano la medesima posizione economica nel 1427. E parimenti le famiglie più povere del 2011 erano sempre le medesime dal 1427. Questo porta ad un enorme spreco di talenti di quanti, nati al di fuori di linee ereditarie consolidate da centinaia di anni, non riescono a realizzare il proprio potenziale. La causa verosimilmente sta nel fatto che gli stimoli giusti dei primi anni di vita ti permettono di ottenere un imprinting tale da produrre la base per ottenere delle doti culturali e comportamentali indispensabili per la propria affermazione. Ciò nutre la fiducia e a sua volta questa genera successo. La sfiducia rappresenta quindi il veleno sottile che contribuisce alla paralisi dell’ascensore sociale dal basso verso l’alto. Al contrario la solidità economica, genera qualcosa di magico: la padronanza del futuro originata dall’autostima. A questo vanno aggiunti gli stimoli giusti ricevuti nei primissimi anni che sono in grado di produrre capacità di attenzione e
motivazione, tutti elementi in grado di condizionare il resto della vita. Tutto questo rappresenta non solo un problema per il singolo, ma una criticità percepita da tutta la società, poiché chi resta fuori da quest’agone genera instabilità sociale e mancanza di rispetto per gli altri. Chi occupa le posizioni più basse della scala sociale vede qualunque vantaggio altrui come una sorta di perdita personale, riuscendo sempre a trovare un buon motivo per violare le regole allo scopo di ottenere un beneficio personale, a di scapito di altri, di breve durata.
Un altro elemento di blocco per la meritocrazia è rappresentato dalla incapacità che ha l’Italia di attrarre talenti, a causa della situazione ambientale dell’ambito scientifico e del clima che si respira all’interno degli apparati statali. Il saldo netto dell’intellighentia per l’Italia è negativo, la capacità di essere “magnete” delle migliori menti è strettamente correlata con le opportunità offerte. Essa rappresenta una reale cartina al tornasole del tasso di meritocrazia che si respira nell’ambiente. Basti pensare che mentre solo lo 0.7% dei ricercatori dell’area OCSE scelgono di lavorare in Italia, circa il 20% (con trend in rapida crescita) dei ricercatori italiani espatria.
Vi è poi il problema di genere, rappresentato dall’evidente disuguaglianza tra carriera degli uomini e quella delle donne. La meritocrazia farebbe ipotizzare che le differenze di genere non debbano rappresentare un elemento discriminante. L’Italia, però, è all’ultimo posto nell’indice di pari opportunità uomo-donna e questo viene confermato dalla presenza femminile nelle posizioni di vertice nelle aziende nazionali: 3% contro il 32% in Norvegia, il 12% in Inghilterra e l’11% in Germania.
É fondamentale quindi che in Italia si sviluppi una “cultura del merito” dove chi è in possesso di una maggiore abilità debba vedere riconosciuto un maggiore grant stipendiale correlato alla valutazione dei reali risultati di merito piuttosto che agli “incentivi a pioggia”, troppo spesso elargiti nel nostro paese.