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Giulio Tarro: tra Scienza e Umanesimo

Giulio Tarro: tra Scienza e Umanesimo

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Pubblichiamo in esclusiva un contributo di Giulio Tarro per messinamedica.it: un magistrale condensato di bioetica ed epistemologia  

Oggi più che mai, la medicina deve conciliare scienza e utilizzazione razionale e complessiva della tecnologia con la consapevolezza che l’Uomo è qualcosa di diverso dalle sue parti. Per questo, oggi la ricerca biomedica necessita di un approfondimento sul metodo della conoscenza, sull’elaborazione del sapere e sui valori etici che ne devono guidare le scelte. Nasce da qui l’esigenza di trovare un bilanciamento di valori, tra uno sperimentalismo sottoposto alla pressione della tecnologia, ma comunque funzionale al progresso della medicina, e la necessità di tutelare il malato e l’umanità. Tra una medicina scientifico-tecnologica e una medicina antropologica. Nasce da qui quel dibattito etico relativo alla ricerca biomedica che non può non toccare direttamente i grandi temi della vita e della morte, quelli dell’identità psicofisica dell’Uomo e dell’umanità.

Quello certamente più famoso risale agli anni ‘90 quando si vollero valutare gli effetti salutari della preghiera; non già quella del malato, ma quella a lui rivolta da sconosciuti. Lo studio fu effettuato nel prestigioso San Francisco General Hospital, dove circa 400 malati di cuore furono suddivisi in due gruppi, uno dei quali ricevette le preghiere di un’associazione neocatecumenale. Per eliminare l’effetto placebo (anche se non si prega in prima persona, infatti, essere al centro dell’attenzione e dell’impegno altrui ha certamente un’influenza positiva) i pazienti non erano a conoscenza dell’esperimento. Secondo i risultati finali, i “non pregati” avevano fatto registrare il triplo di probabilità di complicazioni degli altri ed il quintuplo di assunzione di antibiotici.

Analoghi esperimenti, condotti su malati di AIDS, non portarono a risultati significativi e questo fece dichiarare al direttore di “The Lancet”, forse la più prestigiosa tra le riviste mediche internazionali, che le prove che esista un rapporto tra religione, spiritualità e salute sono “deboli e inconsistenti”.

“La religione senza scienza sarebbe imperfetta” ammoniva un grande scienziato, Albert Einstein. È vero anche il contrario. Una scienza che si ponesse come fine quello di una assoluta conoscenza, illudendosi di sostituirsi alla religione sarebbe quanto di più arido si possa immaginare. Per questo ritengo che scienza e fede debbano procedere su strade certamente separate ma non certo divergenti, verso il fine ultimo che non può che essere porsi al servizio dell’umanità. E queste considerazioni sono ancora più pregnanti quando focalizzando il termine “Scienza” si arriva alla Medicina. Un rapporto questo tra Medicina e Fede plurimillenario considerando che le antiche civiltà avevano un rapporto sacrale con la malattia e la medicina e molto spesso l’attività del sacerdote si identificava con quella del medico.

Ma come si articola, oggi, il rapporto tra Scienza e Fede? Impossibile, ovviamente, dare una sintetica risposta che vuole avere una qualche pretesa di esaustività. Rassegniamoci, quindi a tratteggiare un aspetto di questo rapporto.

È stato fatto notare che Religione e Scienza non solo “possono” ma “devono” lavorare insieme, soprattutto nei campi fondamentali della pace, dei diritti umani e civili, dello sviluppo dell’umanità. Si pensi all’impegno profuso dalle varie chiese del mondo in settori come il volontariato, l’assistenzialismo, il pacifismo…

La concezione del rapporto fra teologia e scienza è mutata profondamente negli ultimi secoli: alla teologia – “Regina scientiarum” nell’enciclopedia del sapere medioevale – la ragione moderna ha preteso di sostituire se stessa quale unica protagonista e vertice assoluto della conoscenza. Ecco perché nell’epoca iniziata dall’Illuminismo il rapporto fra teologia e scienza è stato concepito spesso esclusivamente come un conflitto. Un conflitto cominciato quando la scienza sembrò minacciare il confortevole posto occupato dall’Uomo all’interno di un cosmo creato secondo un disegno divino. Ma la rivoluzione iniziata da Co-pernico e terminata da Darwin ha avuto l’effetto di emarginare, persino di svilire, gli esseri umani non più posti al centro del disegno supremo, ma relegati a un ruolo secondario e senza apparente significato

in un indifferente dramma cosmico, come comparse improvvisate finite per caso nel mezzo di un grande set cinematografico. Questo ethos esistenzialista -secondo cui non c’è alcun senso nella vita umana al di là di quello che gli esseri umani stessi le conferiscono – è diventato il leitmotiv di buona parte della Scienza. E’ per questa ragione che la gente comune, in molti casi, ha finito per considerare la Scienza come qualcosa di minaccioso e degradante responsabile dell’estraniazione dall’universo in cui vivono.

Vi è, comunque, un’altra possibile lettura della Scienza.

Lungi dal presentare gli esseri umani come prodotti accidentali di cieche forze fisiche, la scienza può suggerire che l’esistenza degli organismi coscienti è un aspetto fondamentale dell’universo e che l’universo stesso, attraverso innumerevoli processi durati miliardi di anni, abbia trovato la sua ultima tappa di sviluppo nell’essere umano, nel suo cervello, nella sua psiche. Questa lettura del creato, fatta propria da scienziati come Fred Hoyle o da mistici come Aurobindo, è stata per molto tempo considerata, al più, una poetica intuizione, non certo una teoria scientifica finché l’irrompere sulla scena della fisica quantistica ha prefigurato una sbalorditiva sintesi tra misticismo e razionalismo, tra psiche e materia e, in ultima analisi, tra miracoli e Medicina.

Nel 1935 Niels Bohr, uno dei massimi esponenti della fisica quantistica, rispondendo ad alcune obiezioni che gli venivano poste, tra gli altri, da Albert Einstein, Boris PodoIsky e Nathan Rosen, formulò una affermazione che aprì inesplorati percorsi alla Scienza: “Anche se due fotoni correlati si trovassero su due diverse galassie continuerebbero pur sempre a rimanere un’unica entità e l’azione compiuta su uno di essi avrebbe effetti anche sull’altro”.

Per decenni questa affermazione rimase indimostrata finché nel 1982 comparve sulla scena un fisico dell’Università di Parigi, Alain Aspect, che con una serie di esperimenti dimostrò che i fisici quantistici avevano ragione. Gli esperimenti condotti a Parigi da Aspect prevedevano che una coppia di fotoni correlati (nati dalla disintegrazione di un atomo di calcio) venissero separati e lanciati verso rivelatori lontani, i quali a loro volta dovevano misurare il comportamento dei fotoni dopo che lungo la traiettoria di uno di essi veniva casualmente inserito un «filtro» che ne modificava la direzione. Il risultato dei test dimostrò che, quando uno dei due fotoni deviava in seguito all’interazione col filtro, istantaneamente deviava anche l’altro, benché si trovasse spazialmente separato (per l’esattezza lontano tredici metri: una distanza enorme per particelle di dimensioni subnucleari). Il fatto straordinario non si rivelò tanto la conferma del non localismo, e quindi dell’esistenza di azioni a distanza, quanto l’evidenza che queste azioni avvenivano contemporaneamente, quasi ci fosse tra le particelle correlate una trasmissione di informazioni istantanea. Questa sbalorditiva capacità di particelle, pur infinitamente distanti, di correlarsi in quanto generate nello stesso momento o altre scoperte della fisica quantistica, come la capacità dell’osservatore di influenzare un esperimento scientifico con il suo semplice osservare l’esperimento stesso, hanno scompaginato secoli di scienza e aprono rivoluzionarie prospettive filosofiche che potrebbero ricucire quella dicotomia tra Scienza e Religione sulla quale si basa da qualche secolo la civiltà occidentale.

La dicotomia tra scienza e religione, con il sentimento laico della fiducia e quello religioso della fede, prevede un percorso di conoscenza logica nell’intimità dell’animo umano con severa curiosità per l’immanenza e la esistenza. Dal viaggio di Carrel a Lourdes, scopritore delle colture di tessuto, quindi Nobel, che nel 1903 fu “folgorato” nella cittadina francese come San Paolo di Tarsia sulla via di Damasco, a quelli che più modestamente si sono recati a Pietralcina a visitare i luoghi natali di Padre Pio o la sua cella a San Giovanni Rotondo, dove hanno subito una bellissima esperienza in una atmosfera di devozione e preghiera con una nuova visione della conoscenza, indipendentemente dal poter giudicare le stimmate come fenomeni angiovascolari.

L’uomo (Ulisse) nel suo eterno peregrinare nella ricerca del sapere, nello svelare i misteri reconditi dell’universo, ha messo in risalto la cultura come l’attributo fondamentale per una vera democrazia e per una reale libertà. Lo stesso Albert Sabin ha parlato di progresso della scienza con scoperte non fine a se

stesse, ma con obiettivo il valore sociale della ricerca stessa: nella liberazione della umanità sofferente dalle catene delle malattie si deve dare importanza al valore sociale della ricerca e non ovviamente allo studio del sesso degli angeli: “approfondire i misteri dell’universo, ma soprattutto lenire la miseria della gente sulla terra”.

La vita è un concetto intuitivo, prima di definirla è necessario definire gli organismi viventi con tutti i loro caratteri essenziali che permettono il raggiungimento della verità. Partiamo con la curiosità di conoscere, quindi di manipolare la vita come mai prima di oggi con immense responsabilità per futuri gravidi di scenari radiosi, ma anche di catastrofi.

Che fare per ridurre questi rischi? Spesso quando si parla dei rischi della scienza, si ricorda un’antichissima leggenda tramandataci da Esiodo: Zeus, irato contro Prometeo che aveva osato rubargli il segreto del fuoco, decise di punire l’umanità attraverso Pandora alla quale consegnò un vaso dove erano rinchiusi tutti i mali del mondo ordinandole di non aprirlo mai. Ma la curiosità di conoscere fu più forte della prudenza e Pandora ruppe il vaso. Fu così che, irreparabilmente, i mali si sparsero sulla Terra. È questa l’umiliante lezione che dovrebbe trarre l’umanità? Mettere fine al suo innato desiderio di conoscenza in nome della paura? Probabilmente si tratta di una strada impraticabile. Meglio forse, ridurre al minimo le distanze tra chi fa ricerca e chi dovrà subirne le conseguenze; aprire alla gente i laboratori di ricerca e le torri d’avorio del Sapere per poter decidere tutti insieme cosa fare, e a qual prezzo. Da questo punto di vista la bioetica deve abbandonare il chiuso degli “addetti ai lavori” e delle Commissioni per diventare patrimonio di conoscenza e di dibattito per tutti noi.

Negli ultimi decenni la professione medica ha subito una radicale trasformazione, che ne ha modificato differenti aspetti. Una delle novità più rilevanti è certamente quella che riguarda il rapporto fra il medico e il paziente, e più in generale tra l’arte medica e la società dei potenziali utilizzatori. Si sta sempre più accreditando un’idea secondo la quale il medico è un prestatore d’opera – come un architetto o un idraulico – che offre sul mercato la propria competenza; e che, in base alle richieste, il medico deve adattare la propria “offerta” di servizi, senza pretendere di giudicare o indirizzare in alcun modo la domanda che proviene dal paziente. Un’unica tesi finisce così di essere assunta, sopratutto nel campo biotecnologico: occorre assecondare ogni desiderio trasformando così la Medicina in una specie di “medicina dei desideri”.

Rischia così di profilarsi un percorso scandito in quattro tappe: 1) la tecnica (basti pensare agli sterminati campi di applicazione dell’ingegneria genetica) apre nuove possibilità, prima impensabili o impraticabili; 2) esse accendono desideri inediti; 3) i desideri tendono a essere considerati diritti; 4) si scatena la battaglia per il loro riconoscimento giuridico. Da notare che in questo quadro, la funzione direttiva è esercitata non dal diritto, e nemmeno dalla politica, ma dalla tecnica, il che comporta la morte stessa del concetto di diritto e quindi di etica. E per dirla con Hobbes “Auctoritas, non verìtas facit legem”; è la forza a dettare legge, e non più il riferimento alla verità delle cose.

“La ricerca della verità è più preziosa del possederla” annotava Albert Einstein che subito dopo aggiungeva “L’immaginazione vale più della conoscenza”. Questi aforismi, apparentemente contraddittori, delineano un discorso sull’intrinseco valore della ricerca che va al di là delle sue applicazioni “pratiche” e che, a differenza delle ideologie, connota un innato impulso, l’essenza stessa del genere umano: la curiosità. Ci sono certo altri appagamenti che possono investire il ricercatore: la ricchezza, il potere, la fama… ma niente, assolutamente niente, può sostituire l’avventura della scoperta, il piacere di vedere quelle che erano vaghe deduzioni trasformarsi in inoppugnabili esperimenti. Va da sé, soprattutto in una società così complessa come la nostra, che la ricerca in particolare quella scientifica, e ancora di più quella medica, non può certo essere ridotta ad un mero diletto del ricercatore. Anche perché le ricadute di una scoperta scientifica possono essere devastanti.

La scienza – purtroppo o per fortuna – non è pura. La scienza è già animata da un’intenzione tecnica: guarda il mondo per modificarlo. “Scientia est potentia”, diceva Bacone. Nasce da qui, dall’esigenza di conciliare l’insopprimibile necessità di una ricerca libera con le ricadute di questa sulla società, il fiorire di tutta una serie di riflessioni filosofiche e considerazioni scientifiche che prendono il nome di bioetica, termine coniato da un oncologo Van R. Potter, autore nel 1971 del libro “Bioethics: Bridge to the Future”. Nata negli anni Settanta dalla necessità di stabilire un contatto tra cultura scientifica e umanistica, la bioetica si è rapidamente affermata come punto d’osservazione privilegiato sui temi fondamentali per la salute e l’identità psico-fisica dell’uomo (nascita, vita, malattia, morte) e su quelli resi sempre più attuali dal progresso biomedico (clonazione, biotecnologie, medicina genica…). La bioetica guarda all’essere umano come singolo dotato di individualità specifica e come parte di un sistema, naturale e sociale, con il quale è in continua interazione. In esse si incontrano medicina, biologia, etica, filosofia, diritto, politica, per una analisi completa e interdisciplinare, rispettosa della complessità dell’essere umano. Da questo punto di vista la sua attualità e la sua importanza sono enormi, in un momento in cui la scienza sembra essersi definitivamente sostituita all’ economia e alla politica come motore della storia.

Proprio per realizzare questo lavoro di rinnovamento e di cucitura, la bioetica si è costituita fin dall’ inizio come un insieme di saperi: quello scientifico, in particolare la biologia, quello filosofico, quello etico, quello giuridico e, in ultima istanza, anche quello teologico. In questi anni, la bioetica si è rivelata una formidabile occasione di dialogo tra tutte queste discipline, partendo da una visione positiva della scienza.

Nel deprimente andazzo generale di incomunicabilità tra società e ricerca, cui assistiamo non solo in Italia, vi è forse in atto una lieve inversione di tendenza, volta a favorire relazioni di reciproca comprensione e maggiore fiducia tra scienziati ed opinione pubblica. Ciò impone però, a nostro avviso, una “rivoluzione copernicana” con due obiettivi di visuale del mondo della scienza: il primo è uscire dal proprio particolare (interessi economici e corporativi, convinzioni ideologiche radicate) per mettersi in un’ ottica che consideri come primari gli interessi generali della comunità nazionale e internazionale, con una “opzione preferenziale” per le categorie e i popoli più indifesi e meno rappresentati (anche a livello di mass media); il secondo è fare una scelta di priorità d’intervento anche in ambito di obiettivi della ricerca scientifica a favore delle categorie e dei popoli più indifesi compresi i pazienti ed i poveri che rappresentano la maggioranza di questo mondo senza uguaglianza.