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Storie del terremoto

Storie del terremoto

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di Giuseppe Ruggeri

La piccola Bianca Chigo, sopravvissuta di poco allo sterminio della sua famiglia, spirò tra le braccia di un marinaio russo che aveva cercato di soccorrerla. L’episodio narrato nelle pagine struggenti del volume “Un duplice flagello” del giornalista e scrittore Giacomo Longo, pubblicato a Messina nel 1911

Sulla centralissima via Garibaldi, proprio di fronte al Teatro Vittorio Emanuele, gli avanzi della Palazzata languivano divorati dal fuoco che le fasciava come un immenso abito di morte. Un cielo di piombo, offuscato dalle colonne di cenere che si sprigionavano da quegli avanzi, faceva da cornice allo sterminato paesaggio di rovine che era diventata Messina all’alba di quel fatidico 28 dicembre.

I soldati russi si facevano largo a fatica in mezzo ai detriti della città fantasma. Erano giovanotti biondi, alti, gli zigomi sporgenti dai volti chiari e affilati, le loro divise sgargianti erano un tocco di luce e colore nella desolata monotonia dell’ambiente. Gli stivali ben calzati affondavano nel fango sotto il quale giaceva la Messina che fino a poche ore prima era stata un pullulare di luci e d’insegne che celebravano il Natale, in vista dell’anno nuovo.

Su uno di quegli avanzi, un muretto informe e sbrecciato agli angoli che sembrava vacillare sotto il suo pur lieve peso, al giornalista sembrò di scorgere una figura di bambina. Una figura viva, per quanto immobile come statua, dalla quale il suo occhio stanco e assai miope fu subito e irresistibilmente attratto. Dalla nebbia del suo sguardo malato, l’uomo

riuscì a distinguere i lunghi capelli biondi che scendevano sulla bianca camicia da notte, la fronte alta e pallida, la curva sottile delle mani posate sui ginocchi.

La bambina poteva avere non più di quindici anni, ma il suo sguardo assente, perso nella notte di pensieri impenetrabili, le conferiva molto più della sua età anagrafica. Una figura di dolore era, un dolore discreto e sommesso come la quiete verginale della sua posa che si stagliava nel silenzio irreale di quello scorcio di città ferita.

Seppe, più tardi, trattarsi di Bianca Chigo, la cui intera famiglia era perita nel terremoto. Il padre, Teodoro Chigo, era un piemontese sposato con Concettina Ciampoli, figlia del patrizio taorminese Pietro Ciampoli proprietario dell’omonimo palazzo affacciato sul corso principale della perla dello Ionio. Incrociò il suo sguardo per un attimo, e in quell’attimo gli parve che la bambina gli trasmettesse, con un’intensità deflagrante, la portata d’una sofferenza senza nome né ragione. Poi, quello sguardo tornò a posarsi sulla falce del porto che di là intera s’intravedeva dopo il crollo della lunga filiera di edifici che la schermavano alla vista.

Lo sguardo della bambina aveva abbracciato, per l’ultima volta, il profilo maestoso del mare che si era richiuso dopo aver vomitato tutta la sua furia sulle case, le strade, le piazze della città che vi s’affacciava da millenni.

Un marinaio russo, accortosi di lei, le si avvicinò premuroso e la sollevò con delicatezza da quel giaciglio. Lei non oppose resistenza, il suo corpicino flessuoso scivolò con dolcezza tra le robuste braccia del soldato prima di abbandonarsi, docilmente, al sonno.

Il giornalista, che aveva assistito alla scena, si ritirò in un angolo e pianse.

Bianca era la cugina di mia nonna.

Questa è la sua storia, narrata nel libro “Un duplice flagello” di Giacomo Longo, pubblicato nel 1911 in memoria delle vittime del terremoto di Messina.