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Tra il 2007 e il 2018 l’occupazione è aumentata di 321.000 unità, con una variazione positiva dell’1,4%. La tendenza è continuata anche nel corso di quest’anno. Nei primi sei mesi del 2019 si è registrato un incremento di mezzo punto percentuale rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (tab. 8).
Questo dato, che conferma il definitivo assorbimento dell’impatto della lunga recessione, a ben vedere nasconde alcuni elementi critici. Il risultato finale, visto attraverso la lente dell’orario di lavoro, è l’esito della riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e dell’aumento di quasi 1,2 milioni di occupati part time: nel periodo 2007-2018 questa tipologia di lavoro è cresciuta del 38% e anche nella dinamica tendenziale (primo semestre 2018-2019) è aumenta di 2 punti. Oggi, ogni cinque lavoratori, uno è impegnato sul lavoro per metà del tempo.
Ancora più critico è poi il dato del part time involontario. Il numero di occupati che è obbligato senza alternativa a lavorare a mezzo tempo ha superato la soglia dei 2,7 milioni, passando tra il 2007 e il 2018 dal 38,3% del totale dei lavoratori part time al 64,1%. L’incremento in termini assoluti è stato superiore al milione e mezzo.
In realtà, il lavoro, se visto come volume di risorse dedicate alla produzione di valore e se misurato con le unità di lavoro a tempo pieno (dati di contabilità nazionale), è diminuito nell’arco degli undici anni considerati. L’input di lavoro si riduce di 959.000 unità e parallelamente il volume di ore effettivamente lavorate diminuisce di oltre 2,3 miliardi.
La piramide demografica rovesciata dell’occupazione italiana riflette una sorta di rigetto nei confronti dei giovani, che sono certo di meno rispetto al 2007 (circa 2 milioni), ma sono anche costretti in buona parte a rinunciare a un lavoro a tempo pieno e a piegarsi – con il part time involontario, che sale per i giovani del 71,6% – ad accettare impieghi non soddisfacenti rispetto alle proprie aspirazioni (tab. 9).
L’equazione “più occupati, meno lavoro” condiziona, inoltre, sia la dinamica della produttività, sia quella della disponibilità di reddito. Il Pil per unità di lavoro si riduce tra il 2007 e il 2018 di 339 euro e la diminuzione appare anche più evidente se si prende in considerazione il Pil per occupato interno: in questo caso gli euro persi in undici anni diventano 3.259, con una variazione reale negativa di 4 punti e mezzo. L’impatto avverso sulle retribuzioni del lavoro alle dipendenze è altrettanto consistente, pari al 3,8%: oltre 1.000 euro in meno (tab. 10).
Le frange più deboli dell’occupazione hanno ormai assunto una dimensione molto rilevante. Nel 2018, anche escludendo i lavoratori agricoli, sono poco meno di 2 milioni i lavoratori dipendenti privati che possono contare solo su 79 giornate retribuite all’anno. E anche nel settore pubblico il fenomeno non è assente, visto che riguarda 142.000 dipendenti (tab. 11).
Sono invece 2.113.000 i lavoratori – anche in questo caso escludendo i lavoratori agricoli e non annoverando nel totale i lavoratori domestici – che hanno più di un rapporto di lavoro. Di questi, 913.000 ricevono una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi per almeno un rapporto di lavoro di quelli in essere.
In base a queste analisi, i lavoratori con retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi sarebbero pari a 2.941.000, di cui il 53% costituito da uomini (1.564.000) e il 47% da donne (1.377.000). Circa un terzo di chi è sotto i 9 euro ha un’età compresa tra 15 e 29 anni (circa un milione di lavoratori), mentre la classe centrale di 30-49 anni copre il 47% del totale (quasi 1,4 milioni). Tra i più anziani restano sotto la soglia 518.000 lavoratori, mentre la concentrazione maggiore, dal lato della qualifica contrattuale, riguarda gli operai, che costituiscono il 79% del totale. In sostanza, 8 operai su 10 in Italia ricevono una remunerazione inferiore a quella che sarà presumibilmente il livello base della retribuzione stabilita per legge.