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Questioni di lingua: venticinquesimo appuntamento

Questioni di lingua: venticinquesimo appuntamento

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di Carmelo Micalizzi 

TOPONOMASTICA “STORICA” DI MESSINA

LARDERIA

Contrada di Messina fra le prime pendici orientali di Dinnammare e la marina prossima a Tremestieri e Mili, Larderia è attraversata dal torrente omonimo. Con le sue due frazioni, la superiore e l’inferiore, il villaggio è dominato dal forte “umbertino” costruito nell’ultimo scorcio del XIX secolo in cima al monte Gallo e titolato al generale di artiglieria Giovanni Cavalli (1808-1879).  

Su Larderia si sofferma l’abate benedettino Vito Maria Amico (1697-1762) nel Lexicon Topographicum Siculum (1757- 760): “Piccola terra del messinese a mezzogiorno, e municipio della città, soggetta oggi come un tempo al Senato della medesima, sebbene una volta sia stata soggetta ai Montecatena, che diconsi ancora principi di Larderia. Fu di questi il primo Luigi Moncada per privilegio del Re Carlo II nel 1690 […], dista 5 miglia dalla città ed occupa una amenissima valle per la quale scorrendo nell’inverno un piccolo fiume scaricasi nel mare vicino”. 

Il significato del nome Larderia rimanda a luogo dove si pascono, si allevano suini. Una sorta di territorio per la pastura di maiali anche selvatici e di cinghiali. Nella medievale accezione studiata da Charles Du Cange (Glossarium infimae latinitatis 1678), Larderia è infatti “locus ubi lardum et aliae carnes servantur” luogo dove si conserva il lardo e altre carni; ovvero “locus ubi lardum servatur et retinetur; atque adeo carnes caeterae” luogo dove si custodisce, si immagazzina il lardo e come pure altre carni.

È opportuno, ai fini della comprensione del toponimo, riferire su altri (numerosi) luoghi dall’identico nome. Sovviene, ad esempio, Larderia di Altomonte (Cosenza) che si cita se non altro perché vi è documentato, in un atto del XIV° secolo, tanto l’allevamento di maiali nella vicina valle ricca di acqua, quanto la lavorazione di carne di suino e la preparazione del lardo. Il nome di luogo è di diffuso riscontro in Calabria, soprattutto in territorio reggino. Ad Altomonte si aggiunge infatti la contrada Larderia (da questo momento L.) di Reggio Calabria, L. di San Giorgio Morgeto, L. di Bagaladi, L. di Bova, L. di Condofuri, L. di Motta San Giovanni, L. di San Lorenzo, L. di San Luca. Anche nella provincia cosentina si segnala L. di Roggiano Gravina, L. di Laino Borgo, L. di Tarsia. Riguardo la Sicilia, limitandosi al versante orientale dell’isola si distinguono, oltre la contrada L. argomentata in questa scheda, le grotte di L. di Cava d’Ispica presso Modica, la sciara L. di Motta Camastra e la gola di L. nella valle dell’Alcantara.

Nell’introspezione religiosa e antropologica del villaggio hanno particolare rilievo l’antica devozione per la Madonna di Dinnammare e lo stesso nome del Dinnammari, la “montagna” prezioso oronimo dei Peloritani, nel cui territorio ricade in parte Larderia, al quale si dedicherà (prossimamente) una documentata lettura.

Il dipinto di Maria con il Bambino in braccio sorretto secondo l’iconografia tradizionale da due delfini, opera di Michele Panebianco (1805–1873) in sostituzione di altro più antico, è custodito nella chiesa di San Giovanni Battista. Ogni anno, nella notte fra il 3 il 4 agosto, è condotto su di una varetta, in una processione che si snoda lungo il Dinnammari fino al santuario in cima dove rimane fino al giorno successivo quando viene riportato nella chiesa da dove era partito (Abate 2019). 

La memoria dell’abate Vito Maria Amico così continua: “Il maggiore e unico tempio parrocchiale di Lardaria è sacro a S. Giovanni Battista sotto il Vicario dell’Arcivescovo di Messina che ha cura delle cose sacre. Le suffragano altre sei Chiese e un molto celebre eremo”.

La chiesa di San Giovanni Battista, riferibile al tardo Seicento, è stata forse riedificata sull’area di sedime di un più antico edificio religioso. Si segnala per la semplice architettura del prospetto che, anche se più volte oggetto di restauro, riflette stilemi dell’ultimo scorcio del XVII secolo. Ammirevole è l’altare maggiore, opera di maestranze messinesi, per il solenne palinsesto di intarsi marmorei policromi e, ai lati, il doppio ordine di colonne tortili decorate con variopinti commessi di marmo di gusto seicentesco che conducono ai due sontuosi mausolei dei principi di Larderia ai fianchi dell’abside maggiore. Nella monumentale struttura dei sarcofaghi di Aloisio e Francesco Moncada emergono i basamenti che corniciano due epigrafi e che sostengono le arche realizzate con tarsie policrome di alabastro. All’ordine superiore monta un imponente timpano decorato a volute che fasciano i busti in altorilievo dei due principi, padre e figlio, guardati da due putti che mostrano simboli funerari: una fiaccola capovolta e un teschio. Arabeschi e spire in marmo bianco si legano al vertice con due puttini alati che reggono lo stemma della nobile famiglia (Occhino 2005).

Si diceva delle due epigrafi. Su questi ci si vuole soffermare per alcune singolarità che più avanti si chiariranno. Sono ambedue scritte in latino. L’epigrafe dedicata a Don Giovanni Aloisio Ignazio Moncada (1638-1703), primo principe di Larderia, riporta nell’incipit il rituale acronimo D.O.M., “Dominus Optimus Magnus”, con il conciso elenco dei titoli nobiliari e dei prestigiosi incarichi politici e amministrativi da lui ricoperti. Segue un distico, due versi commemorativi, e infine un rigo con la data di morte del nobile Moncada. La curiosità del lettore è piuttosto attratta dalla enigmatica trascrizione Anagramma Aritmeticum e, a destra, dall’evidenza del numero 3689 che si ripete due volte ai margini dei titoli e del distico.

Anche l’antistante epigrafe latina dedicata a Francesco Letterio Moncada (1675-1742), figlio di Aloisio e secondo principe di Larderia, fa seguire all’acronimo D.O.M. la scrittura Anagramma Aritmeticum, l’elencazione dei titoli e, nuovamente, un distico commemorativo. Tali due parti, come per l’epigrafe del padre Aloisio, sono affiancate, ancora per due volte e sempre a destra di chi legge, dal numero 3691.

Le due frasi dedicatorie e i distici, declinati in un latino settecentesco di non complessa traduzione, si palesano enigmatici per l’evidenza dello scritto “Anagramma Aritmeticum” e dei numeri a quattro cifre, 3689 e 3691, inconsueto riscontro di epigrafia commemorativa*.  Perché questi due numeri?

L’espressione “anagramma aritmetico o numerico” rimanda a un esercizio filologico diffuso, un tempo, tra gli intellettuali delle classi nobiliari, clericali e borghesi e ancora in voga nel XIX secolo. Redatta una determinata frase, Tema o Programma, ogni lettera di essa, in base a uno schema di equivalenza lettera/numero, si mutua in numero. La somma dei numeri dà una cifra che viene trascritta a margine della frase. L’abilità dell’anagrammista consiste nello stilare una seconda frase, l’AnagrammaAritmeticopropriamente detto (necessariamente in logica connessione con il Tema, la prima frase) nel quale la permutazione di ogni singola lettera a numero e la somma dei numeri equivale rigidamente alla cifra di quel Tema. L’Anagrammaè definito “puro” se vi è coincidenza – cosa veramente difficile da comporre – tra i due numeri; “impuro”allorché i due numeri si accostano di molto ma non coincidono. 

Consisteva pertanto l’AnagrammaAritmeticoin un colto esercizio ludico a cui, chi possedeva buona cultura e abilità compilatoria, si dedicava nella circostanza di un evento straordinario: una nascita, un matrimonio, l’assunzione di un’alta carica, uno straordinario evento civile, religioso, più semplicemente, in occasione di simposi letterari, come accadeva per la Accademie cittadine, o pure per semplice intrattenimento salottiero. I due Anagrammi Aritmetici sopradescritti, caso forse unico per dei cenotafi, rimandano alla commemorazione di Aloisio e Francesco Moncada, padre e figlio, principi di Larderia. 

C. Micalizzi, Gli Anagrammi Aritmetici dei Moncada di Larderia, Messina 2009

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