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di Mario Pollicita
I primi casi di Covid 19 – sindrome causata dal SARS COV 2 – si sono verificati in nord Italia pare già dal mese di gennaio 2020, come risulterebbe da quanto affermano alcuni colleghi medici di medicina generale che avevano notato fra i loro pazienti anziani casi atipici di polmonite interstiziale; comunque dopo lo scoppio dell’epidemia in quelle regioni, come sappiamo, purtroppo i casi si sono presentati in tutta Italia. Da noi in Sicilia ed in genere nelle regioni del sud, fortunatamente, non si è avuta la stessa diffusione della patologia.
La prima figura del sistema sanitario che ha affrontato questo problema è stato il medico di medicina generale che ha dovuto improvvisamente combattere questo nemico nuovo, sconosciuto, imprevedibile e subdolo. Di fatto, il medico di assistenza primaria si è trovato subito da solo, in prima linea, e senza avere a disposizione dispositivi di protezione individuale indispensabili per non infettarsi a sua volta. Ed infatti, analizzando i dati FNOMCeO si può notare come chi lavora sul territorio sia stato particolarmente colpito: al 2 di maggio sono 151 i medici deceduti a causa dell’infezione da coronavirus in Italia, di cui 51 medici di famiglia. Con il tempo si è capito che bisognava evitare le visite dei casi sospetti nei nostri studi o a domicilio e che dovevamo gestirli con il triage telefonico. Ma in effetti il prezzo altissimo in vite umane che la medicina di famiglia ha pagato per la lotta alla pandemia, non è altro che la tragica conseguenza delle scelte sbagliate di politica sanitaria, del mancato rafforzamento dell’assistenza territoriale. Negli ospedali il problema fondamentale è stato la mancanza di posti letto, specie nelle terapie intensive, mentre fuori dalle strutture sanitarie è stata l’impossibilità di tutelare il personale.
Speriamo che le criticità emerse da questa emergenza facciano riflettere i responsabili politici sulla necessità di potenziare sia il sistema delle cure primarie ed in particolare la medicina di famiglia, che nonostante tutto ha dimostrato di aver affrontato con responsabilità e abnegazione, in carenza di mezzi, un evento così eccezionale, sia gli ospedali che negli ultimi anni sono stati sempre sottoposti a tagli di organico e di posti letto con le conseguenze che tutti abbiamo potuto constatare.
Da noi questa malattia è arrivata inizialmente con pochi casi, fra febbraio e inizio marzo, per poi esplodere fino a superare globalmente oggi la quota di tremila persone contagiate e quindi abbiamo dovuto cambiare il nostro lavoro radicalmente, il modo di approcciare l’ammalato, di ascoltarlo, di visitarlo, di fare diagnosi e prescrivere la terapia. È stata una sfida affrontata con coraggio, determinazione e con sacrificio. Abbiamo cercato di gestire i nuovi problemi che si presentavano ogni giorno interfacciandoci con gli altri colleghi di medicina generale, con quelli dei servizi epidemiologici della Azienda Sanitaria, del 118 e del Covid Hospital. Questi ultimi, senza riposo, si sono prodigati per realizzare un’assistenza specialistica ospedaliera che offrisse l’identificazione dei casi positivi con il ricorso ai tamponi rino-faringei, l’isolamento dei pazienti per il biocontenimento, fondamentale per bloccare la diffusione della malattia, il trattamento specifico di quelli che richiedevano cure ospedaliere, fino al ricovero in rianimazione per i più gravi.
L’esperienza del covid hospital è stata caratterizzata dal grande impegno profuso dai medici nell’assistere, con competenza ed umanità, pazienti angosciati per la loro condizione, con dispnea e febbre dovuta ad una patologia nuova ed in parte sconosciuta, ed anche nell’istruire e formare operatori esposti a rischio biologico. I colleghi ospedalieri sono cresciuti giorno dopo giorno, implementando protocolli terapeutici nuovi e di non sicura efficacia. Il modello di assistenza ospedaliero è stato totalmente sovvertito nella diagnostica, nel trattamento antivirale, anti-shock e anti ipossiemia fino al ricorso alla terapia intensiva. La rete di assistenza ospedaliera si è dovuta adattare alle nuove esigenze imposte dalla pandemia mutando ad hoc ed in maniera repentina la disponibilità di unità operative dedicate.
Noi medici medicina generale, abbiamo dato informazioni ai nostri assistiti sulle norme igieniche e comportamentali indispensabili a combattere il contagio, sull’uso delle mascherine, sulle modalità relative alla quarantena domiciliare e, naturalmente, abbiamo dato loro le risposte possibili ai quesiti che ci venivano posti sui vari aspetti della pandemia (modalità di trasmissione del contagio, sintomatologia, possibilità terapeutiche, ecc). Abbiamo richiesto i tamponi per i casi sospetti ed
abbiamo effettuato le comunicazioni ai centri epidemiologici della nostra ASP per la quarantena nei casi previsti dalle norme regionali. Tutto questo oltre alla consueta attività di routine che è stata effettuata maggiormente sfruttando gli attuali mezzi informatici con invio di prescrizioni dematerializzate “on line”, rinnovo di piani terapeutici, esenzioni, ecc.
Dato il rallentamento della curva epidemica ottenuta soprattutto con le misure di lockdown e distanziamento sociale, stiamo passando alla cosiddetta fase 2 in cui dovremo convivere con il virus Le autorità politiche nazionali e regionali hanno varato nuove misure di contenimento del contagio che compendiano la tutela della salute pubblica con le esigenze economiche e di libertà individuale. Pare evidente ormai, alla luce della situazione epidemiologica attuale, che le linee di politica sanitaria prevedano che deve essere la medicina territoriale a curare a domicilio i pazienti positivi al coronavirus che si presentano con sintomi moderati e senza importanti comorbidità, quali malattie polmonari o cardiache, insufficienza renale, o patologie con compromissione della risposta immunitaria che rendono il soggetto a rischio di complicanze. Per riorganizzare l’assistenza sul territorio e prevenire la saturazione degli ospedali e delle strutture di pronto soccorso, sono di centrale importanza le unità speciali di continuità assistenziale (USCA), previste dal decreto legge 14/20 del 09 marzo e che avrebbero dovuto essere attivate entro dieci giorni da quella data. Saranno costituite da medici formati ed infermieri territoriali ed incaricate di seguire i casi sospetti o positivi presso le loro abitazioni. Nella nostra ASP dovrebbero entrare in azione quanto prima.
Ma per potenziare l’assistenza domiciliare, andrebbero risolte anche altre criticità come la perdurante mancanza di dispositivi di protezione individuale (DPI) per i medici di medicina generale e la possibilità per loro di prescrivere direttamente i farmaci anti Covid velocizzando tempi e procedure. Speriamo in bene!
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