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Questioni di lingua: ventisettesimo appuntamento

Questioni di lingua: ventisettesimo appuntamento

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di Carmelo Micalizzi 

TOPONOMASTICA “STORICA” DI MESSINA

DINNAMMARE – SECONDA PARTE 

La SPECULA e il DINAMARI

Il gesuita Placido Samperi (1589-1654) narra del monte e spiega l’origine del culto mariano e del sacrario fondato sulla sua cima (Iconologia 1644): Verso la parte di mezzo giorno fuori della Città, sorge un altissimo Monte da otto miglia in circa distante, famosissimo nelle antiche Historie, quello che fu chiamato da Solino Nettunio, nella cui cima vi era edificata una Torre di guardia in quei secoli, nella quale gli antichi Mamertini, per le continue guerre, ò della Grecia, ò dell’Africa, teneano una perpetua sentinella, perché stesse sempre spiando l’uno, e l’altro mare della Toscana, e dell’Adriatico. E Neptunio specula est, dice Solino, in Tuscum et Adriaticum, Da Polibio e da Diodoro è chiamato Calcidico, à nostri tempi dal volgo Dinnammare, forse dalla parola latina, Dimaris, cioè a dire di due mari, perché signoreggia l’uno e l’altro mare, e poi essendosi dal volgo corrotto il vocabolo, Dinnammare. Hor cessate le guerre, e consumata dalle ingiurie del tempo la Torre, nella luce dell’Evangelio i Messinesi posero miglior sentinella, per l’uno e l’altro mare, stabilirono più fedele e più perpetua spia nella cima di questo Monte.

La nota trascrizione del Samperi, oltre che per l’accenno alle classiche denominazioni Nettunio e Calcidico e a quella più recente di Dinnammare, si distingue per l’evidenza della specula, la torre di guardiacostruita sulla sua cima nota altresì per tradizione locale. È pertanto comprensibile come l’importanza della vetta, sede un tempo di un torrione con funzione tanto di presidio ispettivo delle coste a occidente e a meridione di capo Peloro quanto di controllo dello strategico passo montano, identifichi la semantica del toponimo spiegando il nome del monte.             

La toponomastica storica siciliana che affonda le radici tra i secoli IX e XII, sia che faccia riferimento ad antecedenti toponimie sia che riguardi quelle di nuovo conio, si confronta con il sostanziale trilinguismo arabo-greco-normanno, popolare o in uso nella coeva cancelleria normanna, che motiva talora l’ibrida rilettura dei toponimi. Tali corruzioni linguistiche, ancora più guaste dal trascorrere dei secoli, hanno offuscato l’originale significato del nome di luogo inducendo ad errate etimologie.  Ne consegue una interpretazione che conduce a clamorose paraetimologie talora così convincenti da radicarsi e storicizzarsi nell’immaginario culturale.  

Chi scrive ha così spiegato che Pentefur, la rocca e il castello di Savoca, non chiarisce la leggenda dei cinque ladroni (fures) lì rifugiatisi, ma è riferito, più semplicemente, ai cinque villaggi, le forìe, chorìe, i casali di pertinenza savocese. Similmente Giampilieri non individua l’esistenza di un leggendario Giovanni piliere, cavaliere di Malta, bensì è una tautonomia arabo-latina che rivela la presenza di un sasso/pilastro, giam/piliere, che segna la contrada san Paolo nella marina di Briga. 

L’oronimo Dinnammare è dunque stato tramandato – e sono veramente poche le vette del Valdemone (ad esempio: Nebrodes, Thorax, Myconios, Scuderi/Spraverio) che vantano una simile storiografia – con un nome che ne ribadiva la peculiarità. In passato non destava un particolare interesse la frequentazione e la visitazione delle cime dei monti e l’onomaturgia degli antichi, piuttosto modesta, trascurava spesso le vette limitandosi alle pendici, alle valli, alle aree di pascolo, a quella orografia riconducibile ad una dimensione antropica. Questo è il motivo per cui la maggior parte dei nomi dei monti non risalgono a più di quattro o cinque secoli indietro. Ciò di regola, a meno che la vetta non si distinguesse per speciali caratteristiche: una pista di scavalcamento (scala), un crocevia (croce), una spelonca, un dirupo, una curiosa conformazione rocciosa, una sorgiva o un boschetto d’alta quota, uno speciale punto di osservazione e di controllo visivo, un belvedere, una terrazza naturale che potesse motivare una fruizione strategica nella logica di ispezione del territorio e soprattutto di pericolo. Per Dinnammare, con il rinforzo ontologico, della plurimillennaria tradizione delle attigue fauces, transitus angustus, è pertanto possibile che la presenza dell’antica specula, la torre di guardia eretta sulla sua cima, ravvisandone il genius loci, abbia determinato il nome della vetta e quindi del monte.

Una efficace guida allaletturadiDinnammare è chiosata dal Du Cange. Charles Du Cange signore du Fresne (1610-1688), erudito francese, è noto per la collazione di manoscritti di storici, cronisti francesi medievali e scrittori bizantini. L’importanza di questo filologo sta nella pubblicazione dei lessici del tardo latino, Glossarium ad scriptores mediae et infimae Latinitatis (1678), e del tardo greco, Glossarium ad scriptores mediae et infimae graecitatis (1688). In questa seconda opera l’autore spiega la glossa “Dynamarion” con il compendio di alcuni brani tratti dalla letteratura bizantina chiarificatori del significato del raro vocabolo. Cita dapprima due passi dell’Anonymus M. de Bellis Francor[um] in Morea, cronaca in versi volgari della prima metà del XIV secolo, trascritta in vernacolo tardo bizantino, che celebra le imprese dei Franchi nel Peloponneso tra XIII e XIV secolo, più nota come Cronaca di Morea: Dinamàrion, Castrum, Fortalitium, Locus   Munitus. Anonymus M. de Bellis Francor[um] in Morea: costruì un possente castello e un vasto dinamarion […]. Infra: Presero ad attaccare castelli e dinamaria […].

Il sommo filologo francese riporta quindi due frammenti dell’Anonymus de Nuptiis Thesei, da riferire al romanzo tardo bizantino Teseida redatto nella seconda metà del XV secolo in cui il protagonista […] ispezionò i dinamari […], e più avanti: […]  si scagliò contro tutti e [demolì] tutti i dinamaria.  

Il Locus Munitus, descritto dal Du Cange si individua pertanto nella penisola Morea. È rilevante il riscontro di questo Dinamarin nella provincia lacedemone, nel cuore del Peloponneso, per l’evidente analogia con il Dinamarin peloritano: ambedue indicano la coeva insistenza di un’area fortificata fondata in cima ad un monte. Anche il toponimo tardo greco segna infatti il nome di una vetta presso l’antica Sparta, tra le pendici del monte Taigeto e il fiume Eurota, dove sorge la bizantina Mistrà, estremo baluardo occidentale dei Paleologhi ad essere occupato dai Turchi dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453.

Dalla lettura della Cronaca di Morea, ai versi 2985-2991, si apprende come la storia di Mistrà inizi nel 1249 con la fondazione sulla sommità della sua altura di un fortilizio, il Dinamarin, da parte di Guglielmo II di Villehardouin, signore franco e ultimo principe di Acaia, uno dei più potenti tra i piccoli stati fondati dai franchi in territorio bizantino con la frammentazione della cosiddetta “Romania” tra i Crociati in seguito alla presa di Costantinopoli del 1204.

Con la caduta, nell’anno 1248, di Monemvasià, pittoresca rupe fortificata sulla costa orientale del Peloponneso, il principe di Villehardouin estese i propri domini nell’entroterra della Laconìa. Aggirandosi un giorno – narra la Cronaca – in quella regione “[…] scoprì una strana collina, che si staccava dalla montagna […] e ordinò che si costruisse sulla collina una fortezza”. Ancora oggi il Dinamarin, la fortificazione edificata sulla sommità del monte, conserva la struttura della fondazione franca consolidata dai successivi rifacimenti bizantini e pure dai restauri turchi che l’hanno mantenuta in buono stato. La rocca è inaccessibile dai lati meridionale e occidentale per la presenza di dirupi rocciosi e scoscesi burroni, ed ha una sola entrata a settentrione protetta da una torre quadrata, suo nucleo originario. 

Il Dinamarin peloritano è descritto, in perfetta analogia con quello lacedemone, come un  locus munitus, un’area fortificata ma ridotta nell’estensione come è comprensibile nelle pertinenze spaziali della vetta rocciosa di un monte, caratterizzata dalla presenza di una specula, una sorta di torre di guardia frequentata da speculatores, prospectores, militi preposti all’ispezione visiva permanente sui versanti e sulle marine ioniche e tirreniche con compito di segnalazioni alla sottostante città di Messina,  e – si è detto – a alle sue numerose Chorìe di settentrione e di meridione, Forìe (casali, villaggi) nella pronuncia tardo greca,  in massima parte di fondazione bizantina, e agli attigui presidi del monte Miconios, verosimilmente da riconoscere nel monte Scuderi,  a meridione e della storica motta di Rometta a occidente. Giusto questo toponimo, “rimata, ta erìmata”, le fortificazioni, possiede suggestive analogie con Dinnammari.

I due limitrofi toponimi hanno vicende storiche simili e sono paradigmatici dell’importanza strategica dei siti: Dinamarin come ridotto “luogo munito”, Rometta come complesso di fortificazione con castello, torri, e pertinenze militari. È evidente la funzione di controllo con cui si promuoveva un apparato di strutture volte ad assicurare collegamenti visivi all’interno dello stesso territorio. Le comunicazioni a vista, la cui tradizione risale a tempi arcaici, avvenivano con l’utilizzo diurno di fumo o stendardi, vexilla, e notturno di fuochi, secondo un codice sostanzialmente oggi ignoto. Le favorevoli condizioni climatiche e atmosferiche della nostra latitudine potevano consentire di quantizzare la gittata visiva delle comunicazioni a vista, grossomodo, in circa sette miglia, poco più di una decina di chilometri.  

L’interpretazione di locus munitus di Dinnammari chiarisce il ruolo del sito legato alle piste, ai sentieri collinari e montani e, in antico, alle Fauces Mylensis di Polibio. La vetta affacciata sullo Stretto, su Messina e sul versante tirrenico identificava infatti un importante nodo viario su cui, sin da epoca arcaica, convergevano numerose piste di scavalcamento del crinale peloritano con collegamento tra i centri montani e litoranei indubbiamente più rapido anziché per via mare o per trazzere costiere. 

L’epoca di fondazione dellaSpecula di Dinnammare è di difficile collocazione storica. Ne è già certa la presenza – si è detto – negli scritti di numerosi autori classici da Plinio a Solino, in epoca greco- romana. È poco credibile un suo importante utilizzo sotto gli arabi, se non altro per lo scarso ruolo militare che i mussulmani attribuivano a Messina e al suo territorio. Spiega a proposito Michele Amari: I Mussulmani in lor guerre di Sicilia non fecero mai assegnamento sopra Messina, città cristiana, né mai l’afforzarono, né tenervi presidio di momento. La particolare posizione geografica impedì a lungo che Messina, instabilmente araba sin dalla prima conquista nell’anno 842, potesse assolvere la funzione di efficace baluardo della Sicilia mussulmana. La città era infatti circondata dalle montagne saldamente “greche” del Valdemone, isolata per via terra e troppo vicina alle coste della Calabria bizantina per potere divenire una sicura postazione araba. Città aperta e all’occorrenza frettolosamente munita, Messina rimase pertanto, tra il IX e l’XI secolo, la porta socchiusa e mal guardata della Sicilia islamica.            

La ricostruzione della torre diguardia può essere quindi ricondotta alla presenza bizantina antecedente alla prima occupazione araba (842-843) o legata ad una delle diverse fasi di riconquista, come quella del 962 condotta da Manuele e Niceta.  È più verosimile che la Specula di Dinnammare sia stata restaurata nei primi decenni della dominazione normanna. Nel 1081, Ruggero provvide infatti, in una pausa dell’offensiva contro gli arabi, a fortificare Messina da lui considerata clavis Siciliae, munendola di un nuovo e possente fortilizio, castellum, non trascurando tuttavia le opere difensive di supporto e di collocazione strategica extra moenia. È significativa, a tale riguardo, la coeva memoria di Goffredo Malaterra: Nello stesso anno [ndr. 1081] Ruggero dopo avere stanziato ingenti somme, fece venire da ogni parte esperti muratori e cominciò a costruire le fondamenta di un castello e alcune torri nei pressi di Messina: prepose a questa impresa solerti funzionari con il compito di dirigere gli operai. Egli stesso qualche volta veniva per controllare e così, incoraggiandoli e spingendoli a far presto […].

La fortificazione della città e la fondazione delle torri nei pressi di Messina, oltre che rendere più sicura la postazione in riva allo Stretto, fondamentale “testa di ponte” dell’invasione normanna, miravano a dissuadere i bizantini dal tentare un colpo di mano, un’aggressione a sorpresa nello Stretto, mentre il fratello Roberto portava la guerra nel meridione dei Balcani, nel cuore dell’impero di Bisanzio. Lo storico mussulmano An Nuwayri (1280 ca. – 1332), affermava con toni incisivi, sintoni alla memoria del Malaterra, che in quegli anni il paese fu ristorato d’ogni parte dai rum i quali riedificarono fortilizi e castella, né lasciarono monte che non v’ergessero una torre.

L’importanza militare dellavetta è ribadita fino in epoca moderna nell’ambito della fortificazione ottocentesca dei monti peloritani che i messinesi chiamano familiarmente colli. I forti “umbertini”, così detti dal monarca sotto il quale si progettarono e fondarono, vennero realizzati nell’ultimo ventennio del XIX secolo lungo i crinali dei due versanti, costituendo un esempio forse unico di sistema di fortificazione con artiglieria in posizione. Una sorta di vallo, di “bocca di lupo”, che avrebbe determinato di contrastare una eventuale aggressione di flotta nemica che fosse penetrata nelle acque dello Stretto. Tali fortilizi – quattordici quelli di pertinenza peloritana – furono costruiti a “mezza costa” ad eccezione del forte di Dinnammare, il più elevato per quota, cui era affidato il ruolo di controllo e di coordinamento dell’intero sistema difensivo dell’area dello Stretto. Il Santuario, edificato in cima al monte sulla fondazione di un più antico Sacrario, venne demolito nel 1889 per la costruzione del fortino umbertino e riedificato appena più in basso con lo spianamento del pianoro roccioso.

GRAMMATICA di DINNAMMARI

“Dinamarin” è un raro vocabolo di uso popolare tardo greco (XIII-XIV sec.) che definisce un “luogo ridotto fortificato”. Il prezioso relitto toponomastico che oggi sopravvive sia nella denominazione della vetta peloritana che incornicia ad occidente la città di Messina, sia nel nome del fortilizio fondato sulla cima del monte di Mistrà, città bizantina del Peloponneso, è rintracciabile – si è detto –  nella Cronaca di Morea, racconto in versi volgari della prima metà del XIV secolo trascritto in lingua tardo bizantina che celebra le imprese dei Villehardouin, signori Franchi del Peloponneso, e nella Teseide, romanzo greco medioevale della seconda metà del XV secolo. La glossa è stata raccolta e compendiata dall’erudito francese Charles Du Cange du Fresne nel Glossarium ad scriptores mediae et infimae graecitatis (Lione 1688). Di recente è stata chiosata in alcune pubblicazioni specialistiche di cui si dà un veloce riepilogo di bibliografia essenziale a servire chi volesse approfondire l’aspetto filologico:

D. Dimitrakou, Grande dizionario di tutti i vocaboli greci, Atene 1933-1950

G. Rohlfs, Lexicon Graecanicum Italiane inferioris. Etymologisches Worterbruch der unteritalienischen Grazita, Tubinga 1964.

E. Kriaras Vocabolario dei termini medioevali popolari greci (1100-1669), Salonicco 1971. 

G. Caracausi, Lessico greco della Sicilia e dell’Italia meridionale (secoli X-XIV), Palermo 1990, in cui si chiarisce: Dinamarin. Toponimo neutro […] da greco medioevale dinamàri(o)n, “rocca, castello”. Cfr. bovese dinamàri “dirupo”, “precipizio” e Dinnamare monte presso Rometta (Me)”.    

A. Karanastasi, Lessico storico dei termini greci dell’Italia meridionale, Atene 1997.

L’introspezione grammaticale del termine Dinamari(o)n, sostantivo neutro con plurale Dinamaria, rimanda alla radice dinam- cui è implicita l’accezione di “forza, fortilizio, fortezza, fortificazione”; segue la sillaba ar- che ribadisce la funzione di dinam- e la particella –ion, che evidenzia l’ipocorismo del sostantivo, equivalente al latino –ellus (ad es.: castrum, castrellus/castellus). Il suffisso neutro –ari(on), tipico della categoria dei toponimi generici, ha comunque perduto quasi del tutto, nel greco medioevale, l’antico valore diminuitivo. Oltre al nostro dinamàri(o)n (fortilizio), ecco alcuni altri esempi: vunakàri(o)n (collinetta), pirgàri(o)n (torretta), troklàri(o)n (grotticella), caitàri(o)n (piccola cresta montana).    

La grammatica di Dinnammare, il “dinamarin” peloritano, palesa il raddoppio delle consonanti nasali n e m, tipico del vernacolo messinese, e la corruzione “Antennammare”, determinato dal “peso” linguistico, dall’influsso del siciliano “’ntinna” (cima, vetta), raccolta nella recente letteraria invenzione “orciniana” da Stefano D’Arrigo.

IL CULTO DELLA MADONNA DI DINNAMMARE

La devozione mariana legataalmonte è spiegata, ancora nell’Iconologia, da Placido Samperi (1644): “[…] Hor cessate le guerre e consumata dalle ingiurie del tempo la Torre, nella luce dell’Evangelio i Messinesi posero miglior sentinella, per l’uno e l’altro mare stabilirono più fedele e più perpetua spia nella cima di questo Monte”. Il culto individuerebbe le proprie radici, tra XIV E XV secolo, nella feconda tradizione devozionale delle “Madonne venute dal mare” in un territorio che è isola, peraltro, ai margini dell’impero. Nella copiosa letteratura miracolistica del Samperi ogni fondazione di culto alla Vergine è costantemente legata a mirabilia, eventi prodigiosi, che diversificandola ne hanno segnato intimamente la memoria. La devozione per la Madonna di Dinnammare è così distinguibile per almeno due peculiarità:

– Il Monte che è luogo fisico distinto come elemento geomorfico più vicino al cielo e pregno di quella reverenza che induce al culto. La vetta, monumento alla natura, ad un tempo sito reale e spazio interiore che concilia il rapporto tra umano e divino, è luogo privilegiato, vertice di un percorso devozionale che avvicina con i sensi, soprattutto con la vista, alla sacralità del Creatore. Tale è infatti l’animo del pellegrinaggio che annualmente, la notte fra il tre e il quattro agosto, prende avvio dal villaggio Larderia per condurre la sacra icona della Vergine sulla cima di Dinnammare.

– I Delfini che spingono, “traghettano”, con prodigioso “tragitto” verso riva, l’icona della Madonna con Bambino, elementi rivelativi della ierofania mariana sulla cima della montagna e della gemmazione dell’iconografia. Il delfino, il “traghettatore” (si confronti il mito di Arione) che Plinio ricorda essere il più veloce tra tutti gli animali, ha infatti come principale suo attributo la “celerità”, tematica di respiro sintono all’antico, radicato, tuttora palpitante, culto dei messinesi per la Vergine “Egòrgo Epèkoos”, la “Veloce Ascoltatrice” con cui la Madonna di Dinnammare, la “montagna” di Messina, si confronta anche nella proposizione iconografica.  

Carmelo Micalizzi

C. Micalizzi, Onomaturgia di Dinnammare. Dal monte Cronio al Dinamari bizantino, in «Messenion d’Oro» n. s. n° 6, ott.-dic. 2005, Messina 2005, pp. 5-16.

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