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di Giuseppe Ruggeri
Parlano i medici. Gli stessi che, agli esordi di una pandemia la cui gravità le massime autorità sanitarie del mondo hanno da subito – e colpevolmente – sottovalutato, sono stati lasciati soli e indifesi nelle corsie ospedaliere a combattere contro un nemico invisibile e ancora sconosciuto.
Parlano i camici bianchi, i professionisti più vituperati denunciati processati i quali, malgrado i rischi che sapevano di correre, non hanno esitato a ottemperare al dovere-cardine del giuramento di Ippocrate, quel “primum curare” che costituisce la più nobile espressione dell’essere umano.
Quasi duecento i medici vittime del Covid-19 in Italia. Morti che si potevano evitare, così come si potevano evitare molti dei decessi che hanno funestato questi tragici mesi di “mala gestio” politica da parte di una classe dirigente che da troppi anni ormai ha messo le mani sulla sanità, trasformandola in “business”, in barba a un diritto – quello alla salute – costituzionalmente tutelato. Questo è avvenuto, tanto per fare un esempio, in Lombardia, i cui governatori e assessori alla sanità succedutisi nel tempo hanno progressivamente smantellato le strutture pubbliche di quelle unità ospedaliere – come le terapie intensive – destinate ad essere l’indispensabile “front-office” delle emergenze. Virus estremamente contagioso, capace di determinare infezioni simultanee in un’elevata percentuale di popolazione, il Covid-19 non ha dovuto così faticare molto per intasare le poche unità superstiti (5000 sul territorio nazionale a fronte dei 28000, tanto per fare un confronto, della Germania. Con le conseguenze che tutti, purtroppo, conosciamo.
Cosa dire, dunque, delle mascherine facciali? Cosa possono dirne i medici, che di questi dispositivi sono stati carenti per tanto, troppo tempo fino, alcuni di loro, a morire sul campo? Tutto il bene possibile, naturalmente.
Tuttavia è necessario, prima d’ogni cosa, precisare che l’utilizzo di questi dispositivi non può prescindere da una periodica sostituzione di quelle usa-e-getta, onde evitare il pericoloso ristagno di germi con correlate complicanze respiratorie su base infettiva.
Inoltre, l’uso delle mascherine in concomitanza con l’esecuzione di attività motorie e sportive (come il passo veloce e la corsa) implicanti un elevato tenore di scambi ossigeno/anidride carbonica può indurre ipercapnia e perdita di coscienza.
Utilizzarle in permanenza, poi, anche negli spazi aperti, quali antidoti al distanziamento sociale è un concetto assolutamente errato, non essendo il protratto loro impiego scevro da rischi derivanti dal diminuito apporto di ossigeno che comporta. Meglio quindi evitare, il più possibile, assembramenti e attività sociali che comportino un non regolare distanziamento (meno di un metro tra un individuo e l’altro). Il che, peraltro, è anche indice di progresso umano, segnando la differenza tra una massa scomposta e una civile e ordinata assemblea.
Mascherine sì o no, allora?
Quando ne ricorrono i presupposti, certamente sì. Ma “cum grano salis”.
Mettendo cioè in azione il cervello razionale, evitando di farsi sopraffare da quello emotivo.
Che è sempre alle nostre spalle, in agguato.
Come il virus della paura, decisamente più pericoloso del Covid-19.