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Sanità e nuovo Governo Draghi: cosa ci attende? Le riflessioni di Scotti (Fimmg) e Beux (Fno Tsrm-Pstrp)

Sanità e nuovo Governo Draghi: cosa ci attende? Le riflessioni di Scotti (Fimmg) e Beux (Fno Tsrm-Pstrp)

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Fonte: Quotidiano di Sanità

Il Governo di Mario Draghi dopo il giuramento dello scorso sabato ed il primo Consiglio dei Ministri è ormai pronto a raccogliere la fiducia del Parlamento alle Camere.

Roberto Speranza è stato confermato alla guida della Salute ma per il resto tutto, al di là dei nomi, è cambiato, con un nuovo Governo e una maggioranza inedita che abbraccia quasi l’80% delle forze presenti in Parlamento.

Ma pensiamo si possa però dare per certo che la Sanità resterà uno dei temi forti anche del nuovo Esecutivo, come del resto confermato oggi dallo stesso Draghi al Senato, a causa del perdurare dell’epidemia, della necessità di accelerare il piano vaccini e poi di attuare quelle riforme di sistema delle quali il nostro SSN ha certamente bisogno come già rilevato in questi mesi da moltissimi osservatori. 

Con la punta di oggi Quotidiano Sanità conclude il suo Forum avviato la settimana scorsa con alcuni stakeholder della sanità con i quali abbiamo cercato di delineare aspettative e proposte che si vorrebbe alimentassero l’agenda ideale del nuovo Governo nel campo della salute.

Dopo la prima puntata, la seconda puntata, la terza puntata, la quarta puntata, la quinta puntata e la sesta puntata a intervenire in chiusura oggi sono  il segretario nazionale della Fimmg, Silvestro Scotti e il presidente della Fno Tsrm-Pstrp, Alessandro Beux.

Quali dovrebbero essere a suo avviso le priorità dell’agenda sanità del futuro Governo?
Scotti. Tutta la sanità di questo paese necessita di interventi “prioritari” ma almeno due sono ineludibili: il portare a termine nel più breve tempo possibile la vaccinazione di massa anti covid e contemporaneamente avviare un reale rilancio della assistenza territoriale che dovrà fare fronte, alla fine della pandemia, all’emergenza sanitaria che è in questo momento fuori fuoco che è l’invecchiamento della popolazione e le risposte che bisognerà dare nell’immediato futuro con particolare riferimento al recupero della prevenzione primaria e secondaria riferita sia alle patologie croniche che a quelle oncologiche. Se si pensa di attivare l’evoluzione del sistema territoriale a dopo la fine della pandemia avremo un’emergenza socio-sanitaria magari meno evidente ma più impegnativa dell’attuale pandemia.

Beux. La priorità è dare attuazione al potenziamento e alla riorganizzazione delle attività territoriali e domiciliari, investendo con decisione sulla prevenzione. Un progetto di riforma responsabile e lungimirante deve puntare a invertire il rapporto oggi esistente tra la prevenzione (poca) e la cura (troppa), quindi quello tra presidi territoriali e domicilio (pochi) e ospedale (troppo). Bisogna, però, evitare l’errore di riformare sulla sola base dell’emergenza pandemica, cioè facendoci condizionare eccessivamente dell’esperienza in atto, non tenendo in debito conto tutte le altre patologie, quindi tutte le determinanti della salute su cui si deve agire. È un’occasione preziosa per comprendere che la nostra salute è importante sempre, soprattutto quando ce l’abbiamo, e non solo quando viene meno e il sistema si allerta per ripristinarla. Più che un sistema sanitario efficace nella cura, ne serve uno che lo sia nel ridurre la probabilità di ammalarsi, facendo prevenzione, a partire da una corretta formazione scolastica dei più giovani, sin dalle scuole per l’infanzia. In questo disegno, paradigmatico, si inserisce la digitalizzazione quale strumento potentissimo, trasversale, in grado di rendere possibili o di accelerare i cambiamenti. Ci vorrà tempo e tanto impegno per gestire la fase di transizione dall’attuale sistema di cura a quello della prevenzione, ma se non si inizia con idee chiare e determinazione, non si giungerà mai al risultato necessario.


Pensa che i progetti attualmente inseriti nella Mission 6 del Recovery Plan con un finanziamento complessivo di circa 20 miliardi siano quelli giusti o servirebbe altro? E pensa che le risorse siano sufficienti?
Scotti. I progetti della Mission 6 si commentano da soli. Per quanto riguarda il territorio solo le solite forme retoriche e generali con la sola riproposizione di un modello già risultato inefficace che è quello delle “case della comunità” dove il cambiamento è rappresentato esclusivamente dalla sostituzione della parola “ salute” con la parola “comunità”. Per quanto riguarda le risorse bisogna capire che cosa vuol dire “ finanziamento complessivo”. Se si intendono fondi destinati anche a infrastrutture non prettamente sanitarie come le opere di digitalizzazione e adeguamento delle reti informatiche, che dovrebbero essere comuni ai vari aspetti della attività dello stato, ovviamente i finanziamenti anche se importanti non saranno sufficienti: anche per questo motivo si deve uscire dalla vaghezza della Missione 6 del Recovery Plan.

Beux. Premesso che quel documento sarà profondamente rivisto dall’attuale Governo, per l’audizione parlamentare dello scorso 27 febbraio, la nostra attenzione si è focalizzata principalmente sulla seconda parte del Piano: missione 6 – Salute e, in seconda battuta, missione 1 – Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, considerata l’importanza che tale missione riveste anche in ambito socio-sanitario.
L’impostazione concettuale del Piano è rappresentativa di un approccio ancora troppo centrato sulla cura piuttosto che sulla prevenzione e le risorse destinate alla salute sono insufficienti: servono almeno 30 miliardi di €, per ben presidiare l’assistenza socio-sanitaria territoriale; le Case della comunità; la cronicità, la non autosufficienza e le disabilità; la salute mentale; le dipendenze; la salute della popolazione carceraria; la salute dei giovani, delle famiglie e di genere; le cure palliative e la terapia del dolore; la sicurezza dei luoghi delle cure; la prevenzione.

Tra le riforme auspicate c’è in primis quella della medicina e dell’assistenza del territorio di cui si parla da anni ma senza molto costrutto. Perché a suo avviso finora non si è riusciti a cambiare e innovare questo settore? Quali sono gli ostacoli che ne hanno impedito la riforma?
Scotti. L’ostacolo principale è sotto gli occhi di tutti e anche tra le righe di questa testata. L’unica discussione che appassiona è la forma contrattuale dei medici di medicina generale. E’ abbastanza chiaro che prima di passare agli investimenti concreti si vuole risolvere la questione della natura del contratto dei medici di famiglia. E’ sempre evidente che “a prescindere” si vuole eliminare la forma del contratto convenzionale non prendendo  in nessuna considerazione le proposte fatte, in ultimo all’audizione in XII commissione della camera dei deputati,  e ripetendo il mantra  della dipendenza come panacea dei problemi del territorio sorvolando i limiti e la crisi in cui sono piombati in questa pandemia il sistema dei distretti e soprattutto quello dei Servizi di prevenzione ancorché dotati di risorse economiche e di personale mai viste nella recente storia sanitaria del paese. A riprova di questo basti l’esempio del finanziamento per la dotazione di strumenti diagnostici ai medici di famiglia e ai pediatri di libera scelta. I 230 milioni di euro destinati a questo nella legge di bilancio approvata nel 2019 sono ancora, dopo più di un anno, nelle pieghe del burocratismo delle Regioni nonostante sarebbero stati indispensabili per l’attività della medicina generale durante la pandemia ( es. gli eco fast ).  

Beux. Gli ostacoli sono stati tre: una classe di amministratori e relativi referenti politici incapace di insistere sul sistema come avrebbe dovuto, facendo quel di cui c’era bisogno, contrastando l’inerzia, le scelte di comodo o di convenienza; la resistenza al cambiamento da parte di chi nell’ospedale ha consolidato e vuol mantenere il suo potere; per chi era sul territorio, la scarsa o nulla disponibilità a rivedere i modelli organizzativi o la sua modalità di partecipazione.

Un tema al centro di molte polemiche in quest’anno di pandemia ma anche prima, è senz’altro quello dell’autonomia regionale in materia sanitaria, Pensa che l’occasione di un Governo con una potenziale maggioranza parlamentare attorno all’80% possa prendere in mano la questione e riscrivere il Titolo V della Costituzione rivedendo l’attuale equilibrio dei poteri in materia di tutela della Salute? O, al contrario, ritiene che la “differenza” regionale nelle modalità di organizzazione e gestione della sanità vada salvaguardata?
Scotti. Quello che non è accettabile è che ci siano “differenze” di modalità organizzative regionali. L’organizzazione può e deve avere delle differenti modalità organizzative rispetto al contesto oro geografico, di mobilità e di densità abitativa non certamente di erogazione dell’assistenza che deve essere omogenea ed egualmente garantita su tutto il territorio nazionale. Se questo non viene garantito il controllo deve tornare al centro. In questo contesto conta poco fare la classifica di ha fatto bene e chi ha fatto male. Quando il risultato sono disparità di opportunità di assistenza e di risultati di salute per i cittadini il controllo deve ritornare al centro. Su questi temi credo che un governo che non abbia una maggioranza elettorale solida non avvarrà nessuna opportunità di modificare il titolo V che molto significa in materia di ricerca del consenso nelle realtà locali.

Beux. La revisione del Titolo V è auspicabile, anche se poco probabile perché, purtroppo, il tema non riguarda solo la salute in sé, ma anche le ingenti risorse a essa destinate e il potere di chi, direttamente o tramite le nomine, le gestisce. Le determinanti della salute sono globali e dovrebbero essere studiate e affrontate a monte, addirittura a livello internazionale, a partire dall’azione di prevenzione; pensare di poterlo fare a valle, a livello regionale, è una pia illusione, con un altro grado di egoismo e irresponsabilità. Per contro, le Regioni potrebbero comunque avere una rilevante e insostituibile responsabilità nella implementazione locale degli indirizzi nazionali e internazionali.

Tra le prime questioni sul tavolo del nuovo Governo ci sarà certamente il Piano vaccini anti Covid. Cosa servirebbe secondo lei per accelerare le vaccinazioni?
Scotti. Prima di tutto i vaccini e poi un coinvolgimento reale anche nell’organizzazione di chi realmente ha la maggior esperienza in tema di vaccinazione in grandi numeri : la medicina di famiglia. Finora non si è, se non a parole, minimamente coinvolta la parte della professione medica che esegue il maggior numero, ed in molte realtà, di vaccinazioni diffuse ed è a conoscenza diretta delle condizioni di salute della popolazione vaccinabile. Ci auguriamo di essere coinvolti attivamente nell’organizzazione del Piano vaccinale per poter mettere a disposizione del Paese quella massa di informazioni che custodiamo e che faciliterebbero e semplificherebbero le procedure velocizzando notevolmente i processi senza contare l’impegno professionale per l’esecuzione della vaccinazione.

Beux. Fatte salve le fasi di approvvigionamento e conservazione, un atteggiamento meno rigido, a partire dal personale reclutabile per la somministrazione. Inoltre, alcune fasi del processo (raccolta anamnestica, informativa, inquadramento clinico, eventuali consulti per i casi più complessi o a maggior rischio, etc…) potrebbero essere gestite preventivamente, col supporto della telemedicina. Tra le professioni che fanno riferimento ai nostri Ordini, il pieno coinvolgimento degli Assistenti sanitari determinerebbe un beneficio certo per le attività di vaccinazioni.

Altra questione, riguarda l’azione di contrasto all’epidemia. Secondo lei funziona il sistema a zone colorate funziona o va cambiato?
Scotti. Io non mi farei la domanda se funziona o meno il sistema a colori ma piuttosto , alla luce di quello che avviene ed è avvenuto, mi chiederei: i parametri che determinano le colorazioni sono effettivamente idonei o forse dovremmo ripensarli?  E poi il traguardo è mettere sotto controllo nel più breve tempo possibile la diffusione del virus o far soffrire il meno possibile le categorie economiche?

Beux. Ci pare un apprezzabile tentativo di coniugare i diversi diritti costituzionali e le diverse esigenze dei molti soggetti interessati. Come tutte le approssimazioni non accontenta appieno nessuno e manifesta dei punti di caduta che vengono amplificati dal modo in cui i singoli individui partecipano alla vita sociale e aderiscono alle regole. La soluzione perfetta per tutti e in tutte le dimensioni non esiste.

Link articolo: http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=92640