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di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)
Ogni giorno vengono pubblicati sei o sette nuovi studi su Covid-19: sulle caratteristiche del virus, sui modi con cui si diffonde, sulle possibili forme di prevenzione e sui vaccini, su particolari aspetti della diagnosi, sulle terapie, sulle conseguenze del contagio sulla salute delle persone che superano la malattia. Una quantità impressionante di articoli. Di una qualità, però, non sempre sufficiente. Per questa ragione, è meglio avvicinarsi con prudenza a notizie che spesso sono basate su ricerche allo stato iniziale o di cui c’è poco da fidarsi.
Quali aspetti di uno studio vanno considerati?
Il primo consiglio è di tenere a portata di mano la scheda di valutazione che trovi in questo sito. È molto facile da usare e può essere addirittura divertente.
Benissimo: ma se volessi saperne di più?
Primo: leggendo una notizia su Covid-19 – ma il discorso vale per qualsiasi problema di salute – dobbiamo valutare innanzitutto una cosa: la credibilità della fonte, sia del mezzo che riferisce l’informazione (quotidiano, sito web o altro) sia di quella che sta ancora più a monte della notizia (rivista scientifica, centro di ricerca o istituzione sanitaria, come Ministero della Salute o Istituto Superiore di Sanità).
Secondo, se una notizia riporta i risultati di uno studio condotto in laboratorio (in vitro, spesso si legge) o su animali, è possibile – e in alcuni casi anche probabile – che quanto è stato trovato dai ricercatori non possa essere considerato valido anche per gli esseri umani. Per i malati, insomma. Sentiamo cosa dice Silvio Garattini a Roberta Villa in questo articolo: “Se è vero che ci sono differenze tra uomini e roditori, la distanza tra la complessità dell’organismo umano e la semplificazione offerta da una coltura in vitro è ancora maggiore” [1].
Terzo, in generale è più credibile una ricerca indipendente finanziata con soldi pubblici, perché è più probabile che uno studio sponsorizzato da un’industria sia influenzato da interessi particolari, soprattutto di tipo economico [2].
Dopo questi aspetti più generali, cosa dobbiamo guardare?
Bisogna vedere come lo studio è stato progettato e portato avanti. In altri termini, la “metodologia” e, in primo luogo, i suoi obiettivi [3]. Ne avevamo già parlato nella nostra scheda sugli studi clinici.
Una domanda che dobbiamo sempre farci è: qual è il risultato che lo studio si ripromette di approfondire? Nel caso di Covid-19 abbiamo imparato a conoscere che le informazioni che contano realmente sono la letalità della malattia (quante persone muoiono tra quelle contagiate), la necessità di ricovero in unità di terapia intensiva, la gravità dei sintomi in rapporto alla qualità di vita complessiva del malato. Uno studio che si propone di valutare quanti malati muoiono e quanti sopravvivono dopo aver assunto un determinato medicinale può dare informazioni importanti. È intuitivo: la mortalità è un esito rilevante. Il più rilevante, ovviamente. Dovrebbero essere disegnate e condotte soprattutto – se non soltanto – ricerche su esiti rilevanti [4].
Invece, solo per fare un esempio, uno studio che si propone di misurare il livello di carica virale dopo l’assunzione di un farmaco non è altrettanto decisivo, anche se può avere una certa rilevanza. Possiamo dire lo stesso per uno studio che si ripropone di verificare se l’assunzione di un farmaco, magari costoso e con il rischio di importanti effetti avversi, può ridurre gli accessi al pronto soccorso. In gergo tecnico, si dice che la misurazione della carica virale o gli accessi al pronto soccorso sono esiti “surrogati” dei risultati di un intervento sanitario, cioè che possono stare al posto di qualcosa più importante. “Surrogato” e non determinante perché non è stata provata una relazione diretta né tra carica virale e mortalità, né tra quest’ultima e gli accessi al pronto soccorso per i sintomi di Covid-19.
Per come sono progettati ci sono studi più affidabili di altri?
Non è semplice rispondere, perché alla fine lo studio che dà i risultati più credibili è quello progettato in modo rigoroso, portato avanti in maniera seria e non condizionato da interessi diversi dal bene dei pazienti che hanno partecipato alla ricerca. A prescindere dal “tipo di disegno” [5].
In che senso dal “tipo di disegno”?
In breve, la ricerca clinica ricorre a studi osservazionali (chiamati così perché i ricercatori si limitano a osservare i fenomeni) oppure sperimentali. In questi studi – chiamati anche “interventistici” – i ricercatori hanno un ruolo attivo, decidendo di valutare un “intervento” (farmaco, screening, vaccino) somministrandolo a un determinato gruppo di persone, per poi vedere l’effetto che fa.
In linea teorica, il secondo tipo di studio può dare risultati più affidabili. Soprattutto nei casi in cui si mettono a confronto due o più terapie somministrate in modo casuale a due o più gruppi di persone sufficientemente numerosi e che possano essere paragonati. In altre parole, le persone che – senza saperlo – assumono il farmaco in esame devono essere in tutto e per tutto simili a quelle che assumono il farmaco di confronto o il placebo. Vale a dire una sostanza inerte contenuta in una capsula, una compressa o una siringa non distinguibile dalla medicina la cui efficacia si sta valutando.
Ricapitolando, prima si dovrebbe guardare il metodo di uno studio: com’è stato progettato. Subito dopo, però, dovremmo vedere com’è stato condotto: per verificare se il disegno della ricerca è stato eseguito in maniera corretta e onesta. Già dopo questi primi due passaggi potremmo accorgerci, per esempio, che uno studio è stato svolto su un numero troppo piccolo di persone, statisticamente non sufficiente ad avere fiducia nei risultati ottenuti. Oppure che la medicina che veniva studiata è stata data a un gruppo di pazienti che sapevano di stare assumendo il farmaco e che, quindi, potevano in qualche modo essere condizionati. Non è un’eventualità strana: immagina che a un gruppo di persone sia data una medicina attiva e al gruppo di confronto un placebo. I primi potrebbero accorgersi di qualche effetto collaterale del farmaco mentre i secondi, trattandosi di una sostanza inerte, non proverebbero alcun disturbo.
C’è infine un altro aspetto importante che riguarda la comunicazione.
Perché il modo col quale viene comunicato uno studio è importante?
La comunicazione dei metodi e dei risultati di uno studio è molto importante, soprattutto perché la completezza delle informazioni date è la condizione che può permettere ad altri ricercatori di replicare lo studio per verificarne la correttezza.
In secondo luogo, è essenziale che siano condivisi quanti più dati possibile, anche – come si suol dire – a livello del singolo paziente che ha partecipato alla ricerca. Questo è fondamentale soprattutto per l’approfondimento di eventuali reazioni avverse che si siano verificate nel corso dello studio [6].
Un altro aspetto importante riguarda l’indipendenza dei ricercatori: anche nel caso in cui uno studio sia stato finanziato da un’industria, è necessario che lo sponsor non sia coinvolto nell’analisi dei dati e nella loro pubblicazione.
Concludendo, quali domande chiave devo farmi leggendo una notizia che riporta risultati di uno studio su Covid-19?
- La notizia viene da una fonte istituzionale di cui posso fidarmi?
- È uno studio svolto in laboratorio, su animali o sull’uomo? Cerca risposte a una domanda importante che riguarda la malattia?
- Lo studio è finanziato con soldi pubblici o da un’azienda privata?
- Lo studio ha coinvolto una popolazione di pazienti numerosa? Molte centinaia? I pazienti ricevevano la terapia studiata casualmente?
- I dati raccolti nel corso dello studio sono accessibili da parte dei ricercatori che volessero ripetere le analisi degli autori?
(Fonte: dottoremaeveroche.it)