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di Mario Pollicita e Donato Mannina
Uno dei problemi che frequentemente affronta il medico di medicina generale nel suo ambulatorio è quello del paziente con linfoadenopatia, cioè con uno o più linfonodi aumentati di volume. Spesso questo evento è causa di ansia sia nel soggetto che ne è affetto, sia nei suoi familiari.
I linfonodi rappresentano una componente fondamentale del sistema immunitario e possono risultare ingranditi in numerose condizioni cliniche: infezioni, malattie linfoproliferative, metastasi da tumori solidi, malattie autoimmuni, malattie dismetaboliche e, molto più raramente, in seguito all’uso di alcuni farmaci (idantoina, carbamazepina, acido paraminobenzoico, fenilbutazone).
L’attenta valutazione di una serie di caratteristiche semeiologiche consente di orientarsi sulla natura dell’affezione e in qualche caso addirittura di pervenire alla corretta diagnosi già in sede clinica. In alcune situazioni può consentire di indirizzare tempestivamente il paziente allo specialista ematologo, evitando di correre il rischio di una diagnosi tardiva. Infatti in ematologia, mentre non si può operare un’azione di prevenzione delle emopatie, come avviene nel caso di molti tumori solidi, si può viceversa pervenire ad una diagnosi precoce che può essere determinante per il successo della terapia.
Informazioni importanti per seguire un iter diagnostico rapido e corretto ci vengono fornite dall’anamnesi e dall’esame obiettivo. Il medico di medicina generale può svolgere un ruolo fondamentale in questa fase in quanto conosce la storia clinica del paziente, nonché l’ambiente in cui egli vive e lavora.
Dobbiamo considerare: le dimensioni del linfonodo, le sue caratteristiche fisiche ottenute dalla palpazione ed ispezione, la localizzazione anatomica, l’età del paziente.
Definiamo sicuramente patologici linfonodi di diametro di due centimetri, ma, eccetto che nell’infanzia e nella regione inguinale a qualsiasi età, la presenza di linfonodi di un centimetro richiede ugualmente ulteriori indagini se non è possibile identificare una causa certa.
Una linfoadenopatia è sede di una emopatia sistemica più spesso negli adulti che nei bambini. Al di sotto dei 30 anni di età circa l’80% dei casi ha una origine infiammatoria o infettiva, mentre oltre i 50 anni circa il 60% dei casi ha una causa neoplastica.
Altre caratteristiche fisiche da considerare sono: diffusione polistazionale o monostazionale, dolorabilità, consistenza e mobilità.
La polistazionalità all’esordio è tipica delle infezioni, della leucemia linfatica cronica, delle malattie autoimmuni. Nel linfoma di Hodgkin e nelle metastasi tumorali l’esordio è in genere monostazionale. La dolorabilità è peculiare dei processi infettivi acuti, ma può essere riscontrata anche nelle neoplasie se la spinta proliferativa è forte. La mobilità del linfonodo è in relazione ad eventuali processi di periadenite e/o invasività della proliferazione neoplastica.
Per quanto riguarda la sede anatomica della linfoadenopatia, in alcuni casi, l’origine della noxa patogena può ricercarsi nel territorio dal quale afferiscono i vasi linfatici al linfonodo interessato, ma spesso non è così, essendo causata da un processo sistemico. A questo riguardo pensiamo soprattutto a due sedi anatomiche come la sopraclaveare sx o la mediastinica dove la comparsa di linfoadenopatie può farci sospettare una localizzazione di processi neoplastici con origini in sedi distanti ( ad esempio esofago , stomaco, testicolo, o bronchi)
Per quanto riguarda gli esami di laboratorio solo l’emocromo e gli esami infettivologici possono essere diagnostici, il primo nel caso di leucemie acute o croniche, i secondi in caso di mononucleosi infettiva, AIDS, rosolia, toxoplasmosi ed altre patologie infettive; deve essere presa in considerazione anche la tubercolosi, per la quale si assiste da alcuni anni ad una recrudescenza epidemiologica legata ai fenomeni migratori da aree extracomunitarie. La determinazione dell’LDH è importante nella valutazione prognostica delle malattie linfoproliferative, gli indici di flogosi sono aspecifici, mentre in alcuni casi è utile anche verificare il dosaggio dell’albumina e delle immunoglobuline seriche. Quanto agli esami strumentali, questi non sono mai diagnostici e pertanto la loro effettuazione non deve comportare un ritardo della diagnosi. L’esame ecografico può però essere di notevole aiuto poichè fornisce utili informazioni circa la struttura del linfonodo (visibilità dell’ilo, vascolarizzazione) e le sue dimensioni precise (rapporto tra i diametri, indice di rotondità). Tra le indagini di secondo livello un ruolo fondamentale è rivestito dalla TAC, importante soprattutto per la valutazione dei linfonodi profondi e la PET che può fornire un’iniziale indicazione sulla natura proliferativa delle linfomegalie ma soprattutto identificare dettagliatamente le sedi (stadiazione) di una malattia già diagnosticata istologicamente.
In realtà, il momento fondamentale ed insostituibile nella diagnostica dei linfomi è la biopsia chirurgica del linfonodo. L’agobiopsia con ago tranciante può essere utilizzata solo nei casi in cui la linfoadenopatia è situata in sede profonda ed il rischio chirurgico è elevato. L’agoaspirato, utile nei tumori solidi, può essere inutile se non addirittura fuorviante nella diagnostica dei linfomi, dove è fondamentale osservare l’architettura del linfonodo nel suo insieme per ottenere quella precisione diagnostica di tipo e sottotipo istologico indispensabile per una corretta impostazione terapeutica.
In ogni caso il medico di medicina generale, dopo aver avviato il corretto iter diagnostico, nei casi in cui giunga ad una diagnosi di patologie, per lo più infettivo-infiammatorie, che possono essere trattate a domicilio perché rientrano nell’ambito di propria competenza (cure primarie), pone in essere la terapia, mentre qualora sospetti una patologia neoplastica, deve rapidamente inviare il paziente presso il Centro Ematologico di riferimento, dove la diagnosi potrà essere precisata e potranno essere avviate le opportune strategie terapeutiche. Nella fase iniziale di stretta sorveglianza di una adenopatia per cui non si è ancora giunti alla diagnosi può essere attuato un breve trattamento antibiotico da usare, tra l’altro, anche come criterio ex iuvantibus. Nello stesso senso possono essere usati farmaci antinfiammatori non steroidei, mentre deve essere assolutamente evitato il ricorso ai cortisonici per il rischio di indurre un’alterazione del quadro clinico o di inficiare l’ottimale interpretazione del reperto istologico.
Il medico di medicina generale si pone in rapporto di collaborazione con il medico specialista ematologo anche nella fase successiva alla diagnosi contribuendo ad illustrare al paziente la diagnosi, la prognosi della malattia, gli effetti collaterali della terapia (attività di counseling). A lui spetta il delicato compito della prima osservazione e talora, in fase di malattia conclamata, della gestione domiciliare delle complicanze e degli effetti collaterali legati alla chemioterapia quando è frequente la possibilità di fasi di pancitopenia prolungata e profonda. In questi casi la fase domiciliare è di particolare delicatezza e risulta essenziale instaurare tempestivamente un’opportuna terapia antibiotica, considerando sempre, nei casi di maggiore gravità, la possibilità di un eventuale ricovero. Infine non vanno dimenticati il rischio di episodi emorragici in seguito a piastrinopenia o le complicanze metaboliche legate alla citolisi oppure all’uso di farmaci particolari, specie le nuove molecole a bersaglio molecolare che presentano un pattern di effetti collaterali nuovo e variegato.
Per i pazienti che hanno ultimato il trattamento, il ruolo del medico di medicina generale diventa nuovamente preminente in quanto il centro ematologico vedrà il paziente con minore frequenza. In questa fase, oltre a valutare i rischi di recidiva, è importante tenere presenti i possibili effetti collaterali tardivi di alcuni farmaci su organi come cuore, reni e polmoni, nonché i potenziali rischi di insorgenza di seconde neoplasie tardive.
In conclusione, è evidente l’importanza del rapporto di collaborazione fra medico di medicina generale e centro specialistico di riferimento, sia per giungere ad una diagnosi tempestiva e precoce di malattia – fatto questo di notevole rilevanza per l’ottimale trattamento delle malattie linfoproliferative – sia dopo la dimissione per effettuare un corretto follow-up sul territorio.
Mario Pollicita Donato Mannina
Medico di Famiglia Direttore UOC Ematologia
Patti (ME) AO Papardo (ME)