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di Giuseppe Ruggeri
Una riflessione sulla vita e sulla morte. E sul valore della memoria e dell’amicizia. Nelle parole del nostro Vescovo vicario Mons Cesare Di Pietro che tratteggia la figura di Augusta Turiaco. Nel segno della musica e della bellezza della sua breve esistenza
Caro Cesare,
riecheggiano ancora in me le parole dell’omelia che hai voluto dedicare ad Augusta, con cui eri amico fin dall’infanzia, in una piazza attonita, battuta dal vento umido di un’incerta primavera. Scalda il cuore, in circostanze del genere, dare un passato a chi il presente ha strappato con violenza dalla scena terrena, perché quel passato è il filo invisibile che ci lega a ciò che non è più. La memoria riscatta l’ingiustizia di una realtà che, con la sua spietata immanenza, riesce sempre, e puntualmente, a sovvertire ogni umana previsione. E nessuno, proprio nessuno, poteva prevedere quello che è successo a un’insegnante di musica come tante ma diventata, tutt’a un tratto, persona unica ed esclusiva come tutti siamo quando ci travolge il ciclone della vita.
Il Signore dà e toglie, lo sappiamo, e il suo regno non è di questa terra. Questo non significa però che alla terra noi non dobbiamo nulla, perché è questa parentesi veloce come il tocco d’ali di una farfalla a regalarci l’eternità. Com’è successo ad Augusta che, congedatasi troppo presto dai suoi affetti, ha tuttavia avuto il tempo di lasciare la sua impronta nel piccolo mondo – parenti, alunni, amici – dove le è stato dato di vivere. Come succede a ciascuno di noi, comunque vada a finire. Perché a finire, in fondo, è soltanto il modo di vedere le cose quando ci si accorge, e non senza stupore, che non si passa mai inutilmente su questo pianeta di cui – ha scritto qualcuno – un giorno noi ci ricorderemo.
Tante e belle espressioni, caro Cesare, tu hai usato per descrivere una di noi, che ha vissuto e amato in modo perfettamente normale e al tempo stesso è stata tuttavia straordinaria, di quella straordinarietà che permea il comune quando ci si rende conto che ognuno, nella sua unicità, è un tassello indispensabile del grande mosaico della Creazione.
E la singolarità di Augusta era la musica, il talento degli angeli, di cui era impregnato anche il suo sorriso, il modo d’essere che la contraddistingueva, quasi fuori posto – proprio così hai detto – rispetto al mondo in cui viviamo. Un mondo che ha perduto ogni serenità – che non è passiva acquiescenza bensì consapevole accettazione di quanto, nel bene e nel male, la vita ogni giorno ci dona. Una serenità che si specchiava in quei capelli rossi e in quegli occhi azzurri che tradivano la sua lontana origine nordica e che ha con costanza accompagnato i suoi giorni. Fino agli ultimi, quando, come presagendo l’imminente passaggio, ella ha raccomandato ai suoi fratelli di prendersi cura degli anziani genitori, piegati da un dolore che non ha uguali e che non si comprende. Perché non tutto, ci insegna la storia, si può comprendere. Forse perché non si deve, almeno fin quando la scala che unisce cielo e terra non sarà percorsa per intero e i nostri occhi non riusciranno a vedere oltre la barriera di nuvole che nasconde alla vista i gradini più alti.
Con la sua musica che – tu nei sei certo – vibra adesso nei cori celesti, Augusta ha formato generazioni di studenti, i quali si son dati ieri appuntamento dentro e fuori la cattedrale per dare il loro arrivederci a una persona speciale nel suo esser comune e comune nella sua specialità. I fiori posati sulla bara di legno chiaro sono stati gli ultimi baci che quei ragazzi hanno posato sul viso della loro insegnante di musica e di vita, il cui messaggio di bellezza e serenità essi porteranno sempre dentro, in un cantuccio riposto dell’anima.
Grazie a entrambi.
Giuseppe Ruggeri