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di Filippo Cavallaro
È tornato sugli scaffali delle librerie, quello che fu il secondo ed ultimo romanzo di Stefano D’Arrigo “Cima delle nobildonne”. L’opera, all’uscita, nel 1986, vinse il Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante e il Premio Brancati. Qui D’Arrigo ha in testa una lingua diretta, infarcita di termini scientifici e medici, tutto l’opposto rispetto al romanzo “Horcynus orca” dove lo sperimentalismo linguistico intesseva il linguaggio dei Cariddoti con invenzioni e virtuosismi narrativi. Qui una descrizione precisa, chiara, obiettiva, lì una narrazione vissuta, convulsa, locale.
L’autore usa la parola per descrivere un intervento che porta una innovazione, un importante cambiamento, la chirurgia, a Stoccolma, è in grado di modificare la persona, creerà una donna. Penso al bellissimo Amira che verrà trasformato definitivamente in donna, grazie alla perizia chirurgica di una equipe appositamente addestrata. Penso ai grandi progressi della medicina che permettono queste trasformazioni. Protagonista del romanzo è la placenta perché è proprio grazie a questo tessuto, particolare e raro, che sarà possibile costruire su misura, per il compiacimento nel rapporto, la cavità che sostituisce, previa demolizione, i genitali originali. Torno alla differenza tra i due romanzi: una descrizione chirurgica con i racconti di Planica e Mattia; il romanzo con le storie di ‘Ndria e Ciccina. La descrizione è sempre più distaccata, pulita, chirurgica, mentre la narrazione si fa impastare dalle passioni, dalle contraddizioni. Mi trovo ad esprimere quotidianamente la difficoltà tra il dover costruire su misura il percorso di recupero funzionale alla persona bisognosa di riabilitazione motoria (con il cuore) ed il dover svolgere un intervento preconfezionato in funzione della patologia che coinvolge le strutture del movimento (con la testa). La prima che voglio, e che mi consente di vivere umanamente un rapporto, in cui valutando e monitorando vengono proposte alla persona in trattamento strategie di condotte motorie (con la passione), la seconda che si impone, e che mi obbliga ad interventi previsti da standard, e presupposti da protocolli di intervento (con la scienza). Oggi mi sono trovato a confessare ai colleghi la difficoltà che ho a prendermi carico della fisioterapia di un signore ricoverato. Costui è nato all’estero da una famiglia di emigrati siciliani, ha frequentato lì le scuole pubbliche di quel paese, ha difficoltà a leggere in italiano, perché non lo ha mai studiato, lo parla, ma dichiara che a volte non capisce il significato delle parole. Gli ho chiesto in che lingua pensasse e non mi ha saputo rispondere. Fortuna che il corpo parla nella declinazione dell’attività motoria, che dà senso, che è coscienza del messaggio, del segno, della traccia, che è comunicazione e conoscenza della realtà, del mondo, dell’altro, del diverso. Grazie ai tessuti corporei che raccontano ed attraverso il tatto riesco a capire cosa succede nelle sue strutture muscolo tendinee, a tutti i meccanismi modulatori del funzionamento del corpo. Meno male che attraverso gli sguardi e le posture abbiamo vicendevole conferma della correttezza del linguaggio. Strano quanto è avanti la scienza nella precisione e potenzialità delle cure, strano quanto bisogna tornare ai linguaggi semplici dello sguardo e della postura per intendersi. Forse oggi attraverso il linguaggio non verbale abbiamo fatto andare all’unisono la testa con il cuore, la scienza con la passione … fu opera d’arte?