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Ma siamo proprio sicuri che la nostra civiltà così “evoluta” sia realmente migliore rispetto alle precedenti?
In effetti forse sarebbe corretto chiedersi se le cosiddette “economie di sussistenza” garantivano ai nostri predecessori un’esistenza più sana e appagante di quella di tanti uomini di oggi.
Dopo la pubblicazione dell’Economia della società della pietra ci si è resi conto che le società tribali, considerate in un primo tempo come una sorta di grado zero dell’umanità, forse non erano così stressanti e difficili da vivere come a prima vista si potrebbe pensare.
Il primo errore che la nostra attuale società cosiddetta civile fa è quello di considerare l’abbondanza come un valore assoluto, universalizzandone l’importanza anche per società molto distanti da noi sia in ordine di tempo ma anche per organizzazione e sistema valoriale. Questa distorsione cognitiva non fa altro che creare una immagine deformata degli uomini preistorici come entità afflitte da bisogni borghesi propri di uomini che utilizzavano utensili paleolitici.
Immagine che viene ancora più distorta dalla erronea convinzione che i cacciatori-raccoglitori di oggi siano gli stessi di 30.000 anni fa. Poiché popolazioni quali i Boscimani, ad esempio, hanno una qualità della vita nettamente peggiore rispetto agli uomini dell’età della pietra, a causa delle influenze che, volenti o nolenti, si trovano ad affrontare a seguito dell’influenza della cosiddetta civiltà moderna. Essi infatti non devono solo avere cura di sfamarsi e scappare dalle bestie feroci, ma devono anche fronteggiare gli incendi, la desertificazione del territorio, il disboscamento, etc che la nostra società, così detta civile, ha determinato. Nonostante ciò la loro quotidianità è scandita da ritmi molto tranquilli, con una caccia che si attua ogni tre giorni, raccolgono cibo ed acqua per 3-4 ore al giorno, il quotidiano delle faccende domestiche è limitato ai minimi termini. I bambini e gli anziani vengono esentati dal lavoro, la gran parte della giornata è dedicata ad attività culturali, allo svago e soprattutto al riposo. 30.000 anni fa, senza la concorrenza dell’economia di mercato e con risorse naturali più rigogliose, le cose andavano sicuramente meglio.
Su Sapiens. Da animali a déi Yuval Noah Harari affronta approfonditamente l’argomento intelligenza dei Sapiens prima della rivoluzione agricola. Questi nostri progenitori erano costretti a cacciare, ma anche ad acquisire sapere, perché per poter sopravvivere dovevano sviluppare delle complesse mappe mentali del territorio, di conoscenza botanica, di abitudini degli animali che cacciavano o di cui dovevano difendersi, le qualità organolettiche dei vari cibi e soprattutto di quelli velenosi o di quelli che potevano essere utilizzati come medicinali. Questa era la teoria, ma bisognava anche essere bravi nella pratica padroneggiando tutta una serie di abilità indispensabili quali la lavorazione della selce o la riparazione di una pelliccia strappata, etc. Dice Harari “Collettivamente gli umani di oggi sanno di più di quanto sapessero i membri di un antico gruppo di Sapiens, ma a livello individuale, gli antichi cacciatori-raccoglitori sono stati i più abili e intelligenti di tutti i tempi”.
Infatti se un bambino di una tribù della Nuova Guinea trasportato a New York in poche settimane maneggia tablet e smartphone come un newyorkese, mentre un bambino di New York in una foresta della Nuova Guinea probabilmente sopravvive meno di due giorni.
Le forme di intelligenza sono molteplici, alcune col progresso sono state potenziate, altre sono andate smarrendosi, come ad esempio l’intelligenza naturalistica, che i nostri cuccioli hanno perso del tutto e che non è facile da recuperare.
Da quanto ritrovato negli scavi la vita degli antichi Sapiens era più confortevole e gratificante della maggior degli uomini vissuti dopo la rivoluzione agricola.
Gli scheletri fossilizzati arrivati fino a noi dimostrano che “gli antichi cacciatori-raccoglitori erano meno esposti al rischio di soffrire di fame e malnutrizione, e che erano generalmente più alti e più sani dei loro discendenti agrari”. Erano anche meno esposti alle epidemie, perché le malattie infettive provengono in gran parte dagli animali addomesticati e si diffondono più facilmente in insediamenti malsani e sovraffollati.
Certo, la mortalità infantile era altissima – come del resto per tutta la storia dell’uomo fino al Ventesimo secolo. I sopravvissuti alla selezione naturale, però, avevano buone probabilità di raggiungere i sessant’anni, e i più fortunati anche gli ottanta.
La ricchezza come la intendiamo noi nonè un valore assoluto, così come la scarsità non è necessariamente un disvalore. L’essenzialità delle tribù nomadi portava a doversi portare dietro l’indispensabile. La coltivazione della terra ha interrotto le migrazioni e incentivato il “senso del possesso” di beni cui non sempre venivano assegnati valori reali che portavano alla ricerca e al possesso di materiali spesso superflui.
Lapandemia ha fatto emergere prepotente l’esigenza di ripensare il nostro tempo libero che in quest’anno di chiusure è stato sacrificato, considerato non indispensabile o addirittura criminalizzato. Quello che per i nostri antichi antenati era considerato il sale della vita.
Tutto questo e tanto altro lo potrete trovare in rete nell’interessante articolo di Laura Antonella Carli su “il tascabile”, all’indirizzo “https://www.iltascabile.com/scienze/pietra-cacciatori-raccoglitori/”.