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di Filippo Cavallaro
Era il primo pomeriggio del 10 ottobre 1984 quando Ulla arrivò alla Casa di cura Adelaïde di Ordrup, cittadina a pochi chilometri da Copenaghen. Ulla andava a trovare l’anziana Margrethe Nørlund, per la quale aveva lavorato come cuoca. Portava una frittata al coriandolo, per la merenda che alla signora piaceva tanto.
La giornata della novantaquattrenne signora era quotidianamente ritmata da impegni fissi. Alle 7 la sveglia, alle 7.30 la colazione, dalle 9 alle 10 la fisioterapia, alle 11.45 il pranzo, alle 14 il caffè, alle 15 il riposino pomeridiano o la visita parenti che per Margrethe Nørlund voleva dire accomodarsi nella più bella panchina del giardino, alle 17.30 la cena, alle 22 tutti a dormire.
Leggendo questo orario mi sembra di dover considerare la fisioterapia o come un impegno culinario, oppure come l’incontro con un familiare. Il pensiero mi va al movimento come un alimento, il bisogno di nutrire il corpo, rinvigorirlo attivando i muscoli, ma va anche all’incontro, all’abbraccio, al conforto, alla confidenza.
Una caratteristica della signora Margrethe è che ha sempre un libro in mano. La sua vita è stata caratterizzata da un continuo costante lavoro di cura editoriale di opere, di scritti, di ricerche scientifiche, di ordinare appunti … intuizioni. Da ventidue anni è vedova e da più di quindici ormai vive alla “casa Adelaïde”, ricevendo periodicamente le visite di Ulla ma anche dei tanti figli e nipoti.
Quando, settimane dopo, per un’altra visita, Ulla torna dalla signora, non la trova in giardino, è in camera, a letto, canticchia una melodia. L’artrite che le rendeva difficili e dolorosi i movimenti sta avanzando inesorabilmente. I movimenti della musica, le melodie delle canzoni sono il suo esercizio fisico, possibile malgrado il dolore, forse, addirittura, contro il dolore. Resta a letto.
Tornando all’orario, puntualmente rispettato da tutti gli ospiti di “casa Adelaïde”, ed all’ipotesi della fisioterapia come cibo, ed al fisioterapista come il cuoco, forse un po’ così lo è, se immaginiamo il corpo fisico ed i muscoli come degli affamati di alimenti per attivarsi, come dei consumatori dell’energia accumulata. Pensare anche al dosaggio nelle diete particolari. Quelle quando la debolezza, la fatica, il dolore sono la costante quotidiana.
La signora ha conosciuto Ulla quando abitava alla Carlsberg Honorary Residence con il marito, Niels Bohr, nobel per la fisica del 1922. Grazie a lei abbiamo la revisione editoriale dei suoi lavori scientifici, e la costante e continua accogliente atmosfera di quella casa che ospitò tutte le menti geniali che vissero le due guerre mondiali tenendo tra loro rispetto reciproco, condivisione e cautela.
Nel racconto, sotto forma di diario, mi ha molto sorpreso la definizione di esperto che Niels Bohr diede alla domanda postagli da Otto R. Frisch. Il vincitore del Nobel definiva esperto: quell’uomo che ha commesso nella sua personale, dolorosa, esperienza, tutti gli errori che si possono commettere in un settore molto ristretto. Per lui l’errore è concesso, lo sbaglio fa crescere, fa comprendere meglio le cose.
L’errore che qui è esaltato dai “nobel” è continuamente evitato in altri ambiti. Si è convinti di non dover sbagliare. Si evita il dialogo che dovrebbe portare ad interventi condivisi, in quanto quel confronto potrebbe portare ad ipotesi differenti, da valutare per fare la scelta.
Purtroppo per me, fisioterapista, il lavoro è quasi sempre al buio, conosco la diagnosi medica, poi, lavoro su strutture interne del corpo senza vedere ciò che succede. Certamente mi aiuta lo studio, l’esperienza, la storia narrata dal paziente. Mi aiuta una valutazione tattile delle modificazioni corporee, che arricchiscono e qualificano quanto raccolto in anamnesi, mi aiuta il monitoraggio continuo. Costante valutazione delle modificazioni attese, per cui non mi stanco mai di dichiarare al paziente, al primo incontro che se gli interventi fisioterapici, se gli esercizi terapeutici, se le proposte riabilitative o di recupero funzionale non danno segno di fare effetto entro le prime sedute, sarà il caso di pianificare un altro tipo di intervento. Certo è errore aver imboccato la strada sbagliata, pur se apparente valida e giustificata dal consenso del paziente, ma è sicuramente peggio perseverare da parte del professionista, così come è male se il paziente abbandona rivolgendosi ad altri.