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di Daniele Mannina*
Il trattamento delle neoplasie ematologiche negli ultimi decenni ha subito una radicale evoluzione, non solo in virtù dell’introduzione di nuovi schemi di chemio-radioterapia convenzionale e di innovativi farmaci a bersaglio molecolare, ma soprattutto per il progressivo sviluppo dell’approccio immunoterapico. Una review storica pubblicata su The Lancet nel 2020 ripercorre la storia della terapia del cancro, e riconosce all’immunoterapia il ruolo di quarto pilastro del trattamento delle neoplasie a fianco di chirurgia, chemioterapia e terapia radiante. Nonostante la massiva amplificazione dell’armamentario terapeutico, il problema delle emopatie refrattarie rimane di centrale importanza. Le neoplasie linfoproliferative aggressive quali il linfoma non-Hodgkin diffuso a grandi cellule B e la leucemia linfoblastica B sono ad oggi guaribili con una prima linea terapeutica in circa il 70% dei casi. La probabilità di cura per i pazienti che recidivano già dopo la prima linea, però, scende drasticamente (25-50%) in tutte le casistiche riportate in letteratura. Gli approcci chemio-radioterapici convenzionali, compreso l’utilizzo di chemioterapia ad alte dosi con supporto di cellule staminali ematopoietiche, portano risultati insoddisfacenti, specie nel contesto dei linfomi aggressivi refrattari (non responsivi alla prima linea o recidivati entro il primo anno). Per i pazienti per i quali la chemio-radioterapia convenzionale è insufficiente una possibilità di cura è attualmente fornita dalle nuove procedure di immunoterapia.
Invero, l’approccio immunoterapico è già di centrale importanza negli schemi standard di trattamento di linfomi, leucemie e mieloma multiplo. Faccio riferimento a scopo esemplificativo ad alcuni farmaci ad azione immunologica già disponibili nella pratica clinica, quali l’anticorpo monoclonale anti-CD20 Rituximab (linfoma non-Hodgkin), anti-CD30 Brentuximab, anti-PD1 Nivolumab (linfoma di Hodgkin recidivato), oppure l’anticorpo bispecifico anti-CD3-CD19 Blinatumomab (leucemia linfoblastica). L’azione di questi farmaci e di molti altri in uso clinico si fonda sulla possibilità di orientare la risposta immunitaria del paziente verso antigeni specifici del tumore. Oltre che degli anticorpi monoclonali, l’immunoterapia può avvalersi dell’utilizzo di cellule del sistema immunitario come armi di trattamento. In ambito trapiantologico l’evidenza di una risposta specifica dei linfociti T del donatore sui cloni neoplastici di leucemie e linfomi è un dato consolidato da alcuni decenni; il cosiddetto effetto graft versus tumor costituisce ancora oggi il principale elemento che garantisce il successo del trapianto di cellule staminali emopoietiche nel controllo a lungo termine della recidiva delle oncoemopatie. Lo sviluppo dell’ingegneria genetica, ed in particolare la messa a punto dei vettori virali come veicolo di materiale genomico all’interno di cellule target, ha consentito di ampliare lo spettro dell’immunoterapia adottiva. A partire dalla fine del secolo scorso gli sforzi di ricerca sull’immunoterapia adottiva si sono infatti progressivamente spostati dall’utilizzo di linfociti naturalmente responsivi ad antigeni tumorali verso la generazione di linfociti T geneticamente modificati che esprimano un recettore specifico per il tumore, divenendo dunque in grado di riconoscere ed eliminare selettivamente le cellule cancerose dell’emopatia. L’approccio che ha avuto maggior successo clinico è basato sul l’introduzione di un recettore per l’antigene chimerico (CAR) sulla superficie di linfociti T autologhi (cellule CAR-T). La struttura del CAR è derivata dal frammento variabile di un anticorpo monoclonale che fornisce la specificità per l’antigene (nel caso dei linfomi B aggressivi e delle leucemie linfoblastiche B, l’antigene CD19), cui si connette la porzione transmembrana di un recettore dei linfociti T (TCR) che garantisce la trasmissione del segnale al linfociti T. Nella struttura possono essere inoltre incorporate una o più molecole di costimolazione. L’istruzione genetica che codifica per tale struttura ibrida viene trasferita all’interno del linfocita autologo mediante un vettore retrovirale o lentivirale. La produzione in laboratorio di linfociti T CD4-positivi (helper) e CD8-positivi (citotossici) parte dalla procedura di aferesi dei linfociti dal paziente, e l’intero processo che porta alla sacca infusionale contenente il prodotto cellulare finito richiede 3-4 settimane. I linfociti T autologhi così armati di recettore chimerico contro l’antigene CD19 possono essere reinfusi al malato dopo un adeguato regime chemioterapia di linfodeplezione a base di fludarabina/ciclofosfamide o di bendamustina, e una volta in circolo sono in grado di riconoscere l’antigene CD19 sul tessuto neoplastico, attivarsi, espandersi, persistere e svolgere la risposta immunitaria specifica contro la neoplasia.
La terapia con cellule CAR-T anti-CD19 è ad oggi approvata dalla European Medicines Agency e dall’Agenzia Italiana del Farmaco per i linfomi non Hodgkin diffusi a grandi cellule B o linfomi primitivi mediastinici a grandi cellule B recidivati o refrattari a due o più linee, e per la leucemia linfoblastica B recidivata o refrattaria del giovane. Sono commercialmente disponibili in Italia due tipi di prodotti CAR-T con tali indicazioni, denominati axicabtagene-ciloleucel (Yescarta®, Kite-Gilead) e tisagenlecleucel (Kimryah®, Novartis). A breve è attesa la registrazione di un prodotto CAR-T anti-CD19 per il linfoma mantellare. I risultati clinici della terapia CAR-T nei linfomi si sono evidenziati nel contesto dei trial clinici multicentrici di fase 3 che hanno portato alla registrazione dei prodotti, con particolare riferimento agli studi ZUMA-1 e Juliet, e si sono quindi confermati nei report scientifici della pratica clinica. Tutti gli studi pubblicati confermano un’efficacia significativa della terapia con CAR-T in pazienti con linfoma aggressivio recidivato o refrattario dopo più di due linee di terapia. Le risposte complessive alla terapia si attestano tra il 50% all’80% circa (overall response rate), e tra il 40 e il 60% circa dei pazienti trattati mantiene una remissione a lungo termine. Si tratta – ricordo – di pazienti a prognosi infausta nella maggior parte dei casi se trattati con gli approcci convenzionali, dai quali in questo contesto è attesa una probabilità di successo in termini di guarigione minore del 10%.
I problemi aperti riguardano la gestione delle recidive post-CAR, che si verificano ad oggi ancora in circa la metà dei pazienti sottoposti a questo trattamento, e la gestione degli effetti collaterali della terapia CAR-T.
L’attivazione dei linfociti mediante CAR a seguito del riconoscimento del l’antigene determina infatti un massivo rilascio di fattori proinfiammatori nel torrente circolatorio; ciò dà luogo alle due principali tossicità a breve termine della terapia CAR-T, ovvero la sindrome da rilascio citochinico (CRS) e la sindrome da neurotossicità connessa a immunoeffettori (ICANS). Tali manifestazioni cliniche possono decorrere con andamento tumultuoso nei giorni successivi all’infusione dei CAR-T come sindromi acute da infiammazione sistemica, potenzialmente determinando febbre, ipotensione, insufficienza respiratoria, alterazioni cognitive o epilettiche. In una porzione minoritaria dei pazienti CRS e ICANS possono richiedere un approccio intensivo di trattamento di tipo multidisciplinare che coinvolge, oltre all’ematologo, il medico intensivista ed il neurologo. L’utilizzo di un armamentario farmacologico vasto comprendente inibitori citochinici (tocilizumab, siltuximab, steroidi) e l’organizzazione di CAR-T team multidisciplinari rende ad oggi gestibili la maggior parte delle tossicità. Come sopra descritto, inoltre, un 40-60% di linfomi aggressivi trattati con CAR-T risulta refrattario anche a questo trattamento oppure subisce una recidiva dopo l’infusione. Gli sforzi della ricerca oncoematologica in questi anni si concentrano sull’ottimizzazione dell’efficacia mediante lo sviluppo di nuovi CAR. Lo scenario futuro si delinea lungo direttive principali che riguardano in particolare la combinazione della terapia cellulare con nuovi farmaci, l’ampliamento delle specificità a diversi antigeni, il perfezionamento del meccanismo di costimolazione. È di certo a ragion veduta che il mondo ematologico oggi guarda con fiducia agli ulteriori progressi attesi nel campo dell’immunoterapia adottiva per i pazienti oncoematologici.
*Ematologo
IRCCS Istituto Clinico Humanitas – Rozzano, Milano