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di Salvo Rotondo
La medicina non è una scienza esatta che però utilizza, nell’espletamento della propria pratica, “scienze esatte” quali la matematica, la fisica, la chimica, la biologia, etc., di cui utilizza “evidenze scientifiche” riproducibili. Infatti per ogni accadimento nel corpo umano esistono infinite variabili che ne influenzano l’espressione e l’evoluzione. Ciò comporta che la medicina è da considerarsi un’Arte empirica con ottimi margini di precisione, senza che però questo significhi che sia sempre riproducibile negli esiti.
Purtroppo a volte viene instillata, nella logica dei pazienti, l’aspettativa del risultato sempre positivo dopo una terapia medica o chirurgica. Ciò determina in troppi casi il rifiuto della realtà delle cose e la mancata accettazione del risultato disatteso. Così l’esito imprevisto e non evitabile diventa “malasanità”.
La relazione malpractice-medicina di difesa però porta un danno combinato al paziente, al medico, alla società di cui pochi si rendono conto, ma questa è un’altra storia.
Ma chi può avere l’interesse a denunciare un medico a seguito di sospetti casi di malasanità? Il più delle volte pazienti o loro parenti, a volte per un sentimento di rivalsa, a volte col miraggio di un vantaggio economico, troppo spesso sostenuti, se non incentivati, da organizzazioni legali senza scrupoli che hanno fatto del “filone malasanità” una importante entrata economica. Ad amplificare il tutto non infrequentemente intervengono i mass media, probabilmente per riempire vuoti delle edizioni o per problemi di audience.
La divulgazione di un ipotetico caso di malasanità inevitabilmente sarà però un’informazione di parte, basata unilateralmente sull’ipotesi accusatoria che lascia indifesa la corrispondente parte medica.
Quando un professionista viene accusato di malpractice tace. Non si difende, non per nascondere la verità, ma perché sa che qualunque tentativo di interrompere l’assedio asfissiante delle voci forcaiole che si ergono contro di lui verrebbe interpretata come prova schiacciante a suo carico. Nessuno si preoccupa di cosa accade al professionista ed ai suoi familiari quando un medico viene sbattuto in prima pagina con foto, dettagli e insinuazioni pruriginose della vicenda incriminata. Cosa accade ai suoi figli a scuola o al coniuge sul posto di lavoro? Sarebbe curioso chiedersi se tutti quelli che ne hanno pubblicato su carta stampata o sul WEB si siano mai posti questa domanda. Ma vale ancora la presunzione d’innocenza? “Più garanzie a chi è sotto inchiesta” ha titolato più volte il Corriere della Sera, ma è davvero così?
La medicina, con la sua tecnologicità sempre più sfrenata e con l’organizzazione sempre più aziendale del SSN, è però sempre più disumanizzata, sempre più incapace di generare l’alleanza terapeutica tra il medico ed il paziente allontanandone progressivamente le due polarità.
Grazie ad una carriera universitaria continuativamente al passo coi tempi, ma sempre più lontana dal paziente, i medici si trovano oggi a curare le singole patologie spesso grazie a alienanti ultraspecializzazioni che allontanano la cura dell’uomo nella sua interezza, concentrandosi sulla medicina come scienza, perdendone di vista il concetto di Arte. Siamo diventati bravissimi a sviluppare ed applicare le tecnologie, senza riuscire a capire che è necessario intessere una rete di rapporti col paziente fatta di sorrisi, disponibilità, pacche sulla spalla, etc.
Quando poi un medico si trova sbattuto in prima pagina si attiva la gogna mediatica. I dettagli della denuncia presentata dal presunto danneggiato o suoi parenti vengono immediatamente divulgati, la foto finisce in prima pagina, in TV e sul WEB, quasi si trattasse di un processo mediatico in real time cui si aggiungono quotidianamente particolari e talora ampi stralci di intercettazioni spesso irrilevanti e non di rado decontestualizzate. Ma c’è da chiedersi: da dove proviene tutto questo materiale probatorio che viene pubblicato e che fa precipitare il malcapitato di turno nel tritacarne mediatico? La “supposta” parte lesa?, il tribunale?, gli inquirenti?, gli avvocati? È un quesito che non sembra interessare nessuno, ma che di fatto proietta il processo giudiziario su un enorme schermo mediatico visto da tutti troppo spesso ancor prima dell’avviso di garanzia. Dove nessuno sembra accorgersi della manifesta violazione dei diritti di difesa, della privacy nonché della tanto sbandierata presunzione di innocenza, calpestando in maniera irreversibile l’onore, la reputazione, la libertà, la vita stessa di persone innocenti che, fino a prova contraria, dovrebbero essere primariamente salvaguardate come enuncia il secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione. Pochi hanno questa sensibilità/professionalità: troppo spesso non la percepiscono i cronisti, l’ordine dei giornalisti, né il complesso meccanismo giudiziario avallando di fatto tutta questa macchina del fango, spacciandola per diritto di cronaca, come peraltro dichiarato apertamente da Pier Camillo Davigo: … si tratta di “presunti colpevoli di cui non si sia riuscita a provare la colpevolezza. Degli impuniti” in totale controcorrente rispetto a quanto affermava Carnelutti: “La sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario”.
Se nel 90-95% dei casi le azioni per sospetta malasanità finiscono in una bolla di sapone con l’assoluzione del malcapitato di turno (non tenendo conto di tutte quelle situazioni che si risolvono in istruttoria da parte dell’autorità giudiziaria per manifesta inconsistenza delle richieste avanzate dalla “supposta” parte lesa) significa che molto più di nove casi su dieci hanno coinvolto un innocente con tutte le gravi conseguenze sopra descritte e che sembra che siano in pochi a tenere nella dovuta considerazione.