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di Carmelo Staropoli
Quest’oggi desidero soffermarmi su un aspetto particolare e molto dibattutto nella storia del pensiero. Localizzare la sede specifica dell’interazione tra corpo e mente (e per taluni filosofi dell’antichità dell’anima) è stato per secoli uno dei principali obiettivi della speculazione filosofica, ma dopo l’avvento dello studio sistematico del pensiero naturalistico ,tutto ha assunto un’altra dimensione. La scienza moderna consente di definire sperimentalmente e con precisione le parti del cervello interessate nei fenomeni evoluzionistici e le neuroimaging permettono di visualizzare quali siano i siti maggiormente attivi durante i singoli processi fisiologici. La neocorteccia ed alcune aree di esse, soprattutto dell’emisfero dominante, sembrano determinare, la cosiddetta autocoscienza ( ci ritorneremo in un altro articolo). E’ in queste aree che ha sede il mistero dell’uomo,… il mistero che si configura nella straordinaria dicotomia esistente tra le operazioni deterministiche dei neuroni corticali da un lato e le esperienze soggettive (colori, suoni, sentimenti) dall’altro. Qui è la sede dove avvengono i legami tra mente e corpo, quella che Eccles chiamava “Liaison brain”.
J.C.Eccles, una delle espressioni più auliche dello stretto rapporto vigente tra filosofia e medicina, faceva risalire la sua passione per la filosofia al periodo degli studi universitari in Medicina. A suo giudizio, la teoria evoluzionistica di Darwin non spiegava l’esistenza del pensiero e del suo svilupparsi, né contemplava la valutazione delle esperienze e dei sentimenti, cioè della coscienza. Questa veniva considerata agli inizi del secolo scorso come una realtà parimenti a quella corporea costituita da dati tangibili ed in quanto tali evidentemente rilevabili. Quindi un mero fattore meccanicistico. Procedendo con i propri studi, si rese conto come filosofi e psicologi che disputavano sull’uomo e sulla sua natura, spesso non erano a conoscenza dei meccanismi funzionali, che regolano il cervello. Parafrasando Schopenhauer, alcuni pensatori “descrivono il mondo dimenticandosi di se stessi“.
Il Nobel per la Medicina, assegnatogli nel 1963, non spense la vecchia passione filosofica, che in verità non aveva mai smesso di ardere!
Fondamentale fu l’incontro con Karl Popper con il quale nel 1974 presso Villa Serbelloni a Bellagio, procedette alla stesura di “The Self and Its Brain“, testo cult del loro pensiero.
Entrambi erano, per loro stessa ammissione, dualisti. Ritenevano che il funzionamento meccanicistico del cervello non fosse sufficiente a spiegare la mente umana. Questa posizione ricorda il dualismo di Cartesio (“l’uomo è al servizio di una macchina biologica, al servizio a sua volta dell’anima che la governa“), ma la loro concezione era più complessa ed articolata. Si parte proprio dal dualismo cartesiano per approdare al problema della coscienza in quanto tale.
La gnoseologia triadica di Karl Popper contempla
la realtà conosciuta con una suddivisione in tre sfere: Mondo 1 – quello della materia, dell’energia del cosmo, comprendente oltre gli oggetti fisici, ogni forma biologica
Mondo 2 – quello dell’esperienza cosciente nel quale si può includere anche l’inconscio, ogni volta che esso diventi espresso e sperimentato.
Mondo 3 – formato dai prodotti della mente umana: la storia, i miti, le teorie scientifiche, le istituzioni sociali, le opere d’arte.
Il cervello, a loro avviso, è il luogo dove avvengono le interazioni tra questi mondi. La macchina chimico-fisica (mondo 1) si lega in modo misterioso alla coscienza (mondo 2) e quest’ultima è in relazione reciproca con il mondo 3 (ne crea cioè gli oggetti e ne è da questa influenzata). In verità, tutto ciò che la scienza può descrivere del cervello è il modo, i tempi, le condizioni e le vie nervose attraverso cui il flusso di informazioni vengono trasmesse ed elaborate anche topologicamente. Sfugge da questo processo logico, il soggetto, che quelle informazioni legge ed utilizza, ovvero l’uomo, che possiede il cervello con le sue funzionalità e le sue potenzialità. È questa l’incongruenza metodologica, che è il limite invalicabile tra la scienza empirica e l’oggetto della coscienza, sottoposto all’Io in funzione di soggetto pensante. Secondo la metafisica popperiana, ciò che non può essere nota con la sperimentazione né tanto meno modificata da essa, è la conoscenza del nostro io, unico ed inaccessibile ad altri se no a noi stessi, che costituisce un limite intrinseco, invalicabile.
Tale conoscenza non può essere in alcun modo modificata ne riproposta con il metodo galileiano, cioè la sperimentazione (sfugge al “principio di falsificazione o di falsificabilità“). Il principio di falsificabilità delle ipotesi è il pilastro teorico su cui si basa la conoscenza del mondo che Popper ed Eccles definiscono mondo 1. È il criterio che discrimina le scienze empiriche dalla metafisica.
Conoscere il proprio io, come si diceva, unico ed inaccessibile ad altri, se non a noi stessi, è conoscenza metafisica.; infatti non richiede né teorie né esperimenti, e non può essere dichiarata falsa.
“L’utopia che la scienza possa dare una risposta al mistero dell’uomo ha sicuramente profonde e rispettabili motivazioni, ma ha il torto di ignorare i limiti della conoscenza empirica“ (Eccles).