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di Carmelo Staropoli
Le domande che ci dovremmo fare come medici in primis, ma soprattutto come potenziali pazienti, sono quelle di cosa , quanto e quando il soggetto malato vuole sapere della propria diagnosi e quindi, una volta reso edotto , quanto realmente voglia essere consapevole o meno delle possibilità di guarigione oppure di non guarigione . Qualcuno potrebbe dire che è una scelta personale del singolo individuo e noi, in qualità di tecnici, dovremmo solo esprimere con chiarezza fatti e prospettive nei casi ,che non destino preoccupazioni, ed essere di contro più “soft” lì dove la diagnosi è più complessa od addirittura infausta.
Di fatto questo ragionamento , che può essere accettato e forse condiviso sotto il profilo umano, a mio avviso, limita ,od addirittura preclude, l’attestazione della propria libertà individuale ; cioè Il diritto di sapere ciò che lo attende nel bene e nel male e che non può essere negato .Tale aspetto è riconosciuto universalmente e si attua implicitamente nella facoltà di scelta da parte dell’interessato se fare o meno un trattamento rispetto ad un altro. Anche nei casi più gravi il medico può solo dare delle indicazioni sia di comportamento che diagnostico-terapeutiche , ma non può certo imporre nulla al paziente. Questo è assolutamente legittimo e riconosciuto anche in ambito giuridico .
Il vivere lo status di malato e’ una realtà a se stante , costituita da un coacervo di fattori sia fisici che psicologici (tipologia ed entità della sintomatologia subiettiva, riduzione di funzionalità specifica, conseguenze cliniche della malattia, partecipazione attiva del singolo alla stessa e dell’entourage familiare circostante ). Esso assume , alla luce di ciò, una valenza assolutamente ed inevitabilmente soggettiva. L’ansia reattiva, che si sviluppa di conseguenza , associata ad una deflessione del tono dell’umore, determinano a cascata una serie di interazioni di carattere cognitivo, emozionale e relazionale non autolimitantesi . Ci troveremo di fronte a compromissione dell’attenzione, focalizzazione ideativa, atteggiamento anedonico, che inevitabilmente porteranno alla visione distorta della reale condizione di salute e contestualmente una possibile sotto o super valutazione del processo patologico attraverso un meccanismo psicologico di insofferenza all’informazione ricevuta fino a giungere alla negazione della malattia stessa, quale meccanismo di difesa, oppure di contro all’incremento smodato della sintomatologia subiettiva legato a conversione somatica .
Per evitare tutto ciò , da parte del personale sanitario, vige l’ assoluta necessità di parlare apertamente con il paziente delle scelte terapeutiche effettuate e di ciò che sarà il futuro del trattamento , identificando con precisione sintomi collaterali e tempistica di somministrazione, possibilità reali di recupero ed eventuale cronicizzazione . Questi sarà altrettanto libero di esprimere impressioni e sentimenti connessi alla malattia ed agli steps di terapia. Ciò porterà, se correttamente effettuato, ad un clima più disteso, permettendo una relazione più diretta ed empatica .Il soggetto in questione deve avere il tempo di acquisire dati e problematiche inerenti la propria situazione clinica e confrontarsi eventualmente con la famiglia o con il caregiver. Per ultimo ,ma non ultimo, il medico deve chiedere la collaborazione fattiva del protagonista (suo malgrado ) ,spingendo lo stesso su per la china delle avversità e contro le difficoltà ovvie dell’iter diagnostico-terapeutico.
Partendo da tale premessa , subentra un’entità nuova omnicomprensiva in questo processo conoscitivo, cioè il concetto di consapevolezza . Essa, espressione di dinamismo cognitivo in continuo divenire, è di fatto la vera libera conoscenza, che si ottiene attraverso la rimozione di tutti i pregiudizi , i condizionamenti ed i compromessi, che gravano sulla nostra coscienza, attraverso un incremento della fiducia in noi stessi e nelle nostre scelte. Questa è la via che porta ad una trasformazione radicale della nostra esistenza, rimuovendo dal nostro cammino ostacoli consci ed inconsci. Abbiamo conferma di ciò in Husserl per il quale il concetto di consapevolezza risulta essere “una condizione interna di equilibrio e di ponderatezza dell’oggettualità”, sentito come stabilizzazione del rapporto del nostro essere con il mondo esterno. Secondo Carlos Castaneda , ancora più ampiamente, consiste nella considerazione di libertà totale , come atto di essere deliberatamente consci di tutte le possibilità percettive dell’uomo, scevro da limitazioni od imposizioni di carattere culturale.
Traslando nel contesto di malattia e di soggetto, che vive la percezione della propria disabilità funzionale ( cioè la malattia) , la consapevolezza della propria realtà va stigmatizzata come la capacità di cogliere correttamente da un lato l’informazione acquisita dai medici o da fonti esterne e dall’altro l’elaborazione del quadro lesionale in visione prospettica del disturbo stesso e del suo manifestarsi. . La mia libertà individuale passa anche da quella che è la conoscenza del perché avverto quei sintomi e se c’è o meno una cura per attenuarli o debellarli. Consiste in buona sostanza nella coscienza di quanto sta succedendo, nell’analisi del cambiamento ,insito nella nuova condizione , nell’intuizione di quale futuro concreto e possibile si prospetti . Grazie proprio a tale impostazione della propria consapevolezza di malattia, il paziente può non subirla, ma affrontare la stessa e rielaborarla.
In questo contesto la figura del medico è quella di “trade union” tra malato e malattia . E’ colui il quale tende ad informare correttamente il paziente , vertendo su oggettivo realismo , senza superficialità, ma con quella “pietas” , che fa del medico un alleato nel conflitto , che sta per travolgere il paziente; in quell’alleanza medico/paziente che deve fornire solidarietà, comunicata anche solo con il tono della voce od attraverso un sorriso. Il paziente deve essere cosciente di non essere solo di fronte agli eventi , ma soprattutto deve sentire la comunità di intenti con il medico e credere in quell’alleanza terapeutica, attraverso la quale acquisire le abilità necessarie per neutralizzare le limitazioni della malattia . Il termine olistico di cui sempre più si parla in contrapposizione all’ipertecnicismo fonda le sue certezze proprio su questo procedimento comportamentale e relazionale. Alla base c’è un uomo ,un individuo che chiede di capire la propria malattia e partecipare attivamente alla sua cura.
Non bisogna dimenticare ,nell’acquisizione della consapevolezza di malattia,il fondamentale apporto del nucleo familiare d’origine. Anche le strutture parentali più armoniche e più presenti , spesso non sono pronte a fronteggiare l’impatto devastante, che la malattia produce. Il nucleo deve essere coinvolto, fin dall’inizio, all’interno di un processo dove la dicotomia guarito/non guarito, va visto come parte integrante di un continuum patologico , avente inizio con l’acuzie e che giunge fino a remissione, con o senza esiti, passando attraverso adattamenti psico-sociali multipli, ad esempio insorgenza della disabilità, a qualunque livello essa sia , ed adesione forzata a nuovi schemi di integrazione sociale.
Ed in conclusione si ritorna al titolo di queste brevi considerazioni ,cioè come la consapevolezza sia sempre una manifestazione di libertà. Ficthe rimarcava come un individuo non può porsi come essere libero se all’interno del proprio animus non si dia interiormente una legge , la legge morale che si esprime sotto forma di un dovere. Il dovere di essere sempre se stesso in ogni frangente del proprio esistere ,quindi, anche durante la malattia.