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Covid-19 si cura con gli antinfiammatori?

Covid-19 si cura con gli antinfiammatori?

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di ROBERTA VILLA

La pubblicazione di un articolo su Lancet Infectious Disease [1] da parte di autori italiani ha riacceso il dibattito sulle cure domiciliari di Covid-19, un confronto che purtroppo si continua ad alimentare di equivoci ed è talvolta strumentalizzato a scopi politici. Cerchiamo quindi di mettere in fila i fatti, cosicché ciascun lettore possa poi formarsi una sua propria opinione.

Allora, Dottore: può aiutarmi a “mettere in fila i fatti” accaduti?

Covid-19 si cura con gli antinfiammatori?

Quando il virus proveniente dalla Cina iniziò a diffondersi in Nord Italia, i medici di medicina generale reagirono con smarrimento, perché indicazioni sulle migliori cure da prestare ai malati non esistevano, dal momento che ci si trovava a dover gestire una malattia sconosciuta. I medici cinesi avevano tentato vari approcci, ma nessuno di questi era sembrato risolutivo.

Travolti dalle chiamate di pazienti con sintomi influenzali di diversa gravità – insieme a quelle di cittadini in buona salute ma spaventati dall’emergenza – i medici di famiglia risposero secondo le proprie capacità, ricordando che per essere utili dovevano prima di tutto evitare di ammalarsi anche loro. In carenza di dispositivi di protezione e col rischio di diffondere ulteriormente il virus, molti furono costretti a non visitare i pazienti passando giornate intere al telefono, seguendo l’andamento dell’infezione anche grazie alle nuove tecnologie, attraverso i video che mostravano le difficoltà respiratorie del paziente, chiedendo l’esito dei test eseguiti a distanza e guardando le foto del saturimetro applicato dai familiari.

L’attenzione del governo e dei media era concentrata soprattutto sui pronto soccorso, sui reparti di terapia intensiva che soffrivano la mancanza di personale, di ventilatori e posti letto. La raccomandazione era di non affollare gli ospedali e di fare riferimento al proprio medico. La risposta prevalente dei medici di medicina generale fu correttamente quella di fronteggiare una sintomatologia che – nei pazienti che non avevano necessità di ricovero – era molto simile a quella influenzale.

In molti iniziarono a leggere scrupolosamente quel che veniva pubblicato sulle riviste scientifiche e che tra colleghi si diffondeva per passaparola. In quel momento i medici di famiglia – come del resto anche i medici pneumologi o i rianimatori – non potevano basarsi su evidenze scientifiche riferite direttamente alla patologia che si stava diffondendo, perché prove a cui affidarsi non ce n’erano [1].

In casi del genere – facendo comunque affidamento sulle proprie competenze professionali – si procede per prove ed errori [2]. Forse l’antibiotico azitromicina avrebbe potuto offrire dei vantaggi prevenendo infezioni batteriche in chi sviluppava una polmonite virale? Poteva essere utile un farmaco “antico” come l’idrossiclorochina che in laboratorio sembrava ostacolare l’ingresso del virus nelle cellule? L’eparina – un farmaco anticoagulante – poteva contrastare la formazione di trombi ed emboli responsabili dell’aggravamento della malattia? Ancora: un farmaco antinfiammatorio come il cortisone poteva aiutare a ridurre l’infiammazione causata dal virus? E le vitamine o altri integratori avrebbero potuto rinforzare il sistema immunitario? Infine, l’ossigeno, quando era necessario e si riusciva a procurarselo, poteva evitare ricoveri che, con gli ospedali in quelle condizioni, avrebbero potuto peggiorare le condizioni di malati fragili o anziani?

Con l’avvio di studi rigorosi, condotti in modo coordinato in diversi Paesi del mondo, le prove di efficacia e di inefficacia, di sicurezza e di danno dei diversi trattamenti sono via via emerse, mettendo le istituzioni sanitarie nella condizione di dare indicazioni sempre più precise ai professionisti, sia impegnati in ospedale, sia nella medicina generale. Questo è avvenuto in Italia [3], come anche nel Regno Unito [4], negli Stati Uniti [5] e in molti altri Paesi [6].

I farmaci antinfiammatori “curano” il Covid?

Covid-19 si cura con gli antinfiammatori?

Tra i diversi farmaci utilizzati per curare a casa i pazienti con Covid-19, quella degli antinfiammatori è una storia a sé. Sebbene aspirina e altri medicinali con simile meccanismo di azione venissero da sempre usati per ridurre i sintomi di raffreddori e sindromi influenzali, nel clima di grande incertezza che caratterizzava le prime settimane della pandemia venne sollevato qualche dubbio: si pensava che il profilo di sicurezza di alcuni di questi medicinali non suggerisse di raccomandarli. Per questo, per il controllo dei sintomi si consigliò di utilizzare preferibilmente il paracetamolo, affidandosi per l’azione antinfiammatoria al cortisone nelle fasi più avanzate della malattia. Ancora oggi l’aspirina non è citata nelle principali linee guida internazionali per la cura di Covid-19 [6]: le linee guida del governo australiano sono ancora più esplicite e raccomandano “fortemente” di non usare l’aspirina nella cura di Covid-19 [7].

Ciò premesso, grazie ai risultati di alcuni importanti studi internazionali, la classe dei farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) da tempo è stata scagionata da sospetti. Il medico è libero di prescrivere a proprio giudizio un farmaco antinfiammatorio in relazione alle diverse condizioni cliniche, che possono far optare per l’uno o l’altro tipo di medicinale. Va detto che questi farmaci erano e sono prescritti per il controllo dei sintomi – febbre, mal di testa, dolori muscolari o osteoarticolari – e non per ridurre il rischio di evoluzione della malattia: infatti non c’era allora, e ancora oggi non c’è, alcuna prova solida che gli antinfiammatori in fase precoce prevengano ricoveri o decessi [6].

Infatti, nella prima settimana dalla manifestazione dei sintomi, in cui il virus si replica attivamente, l’infiammazione di per sé non è dannosa, perché è una risposta del sistema immunitario utile per combattere l’infezione. L’intervento del medico in questa fase precoce dovrebbe essere rivolto principalmente contro il virus: ecco perché occorre somministrare subito farmaci e anticorpi monoclonali antivirali. Invece nei casi in cui, dopo alcuni giorni, l’organismo scatena una reazione infiammatoria eccessiva, ridurla diventa l’obiettivo della prescrizione del medico. Alcune raccomandazioni suggeriscono il ricorso al cortisone anche a domicilio nei pazienti che – sebbene non ricoverati – sono giudicati dal medico a rischio di peggioramento [3], oppure nelle persone ospedalizzate con malattia Covid-19 grave che necessitano di supplementazione di ossigeno [3].

L’azione antinfiammatoria dei FANS – anche somministrati precocemente – non compromette la reazione naturale dell’organismo al virus, come potrebbe fare il cortisone, ma l’efficacia di medicinali di questa classe non è mai stata dimostrata da studi clinici randomizzati controllati. Per questo – come detto in precedenza – possono essere usati per il controllo dei sintomi invece del paracetamolo, mentre si segue l’andamento dell’infezione, monitorando l’eventuale comparsa di complicazioni su cui intervenire (la cosiddetta e maltrattata “vigile attesa”). L’errore è confidare che gli antinfiammatori possano avere una maggiore efficacia del paracetamolo stesso.

Cosa può dirmi degli altri farmaci di cui si è parlato nei mesi scorsi?

Ripercorrendo i mesi trascorsi dall’inizio della pandemia, dobbiamo dire che risultati dei grandi studi internazionali, condotti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e da altri enti indipendenti, purtroppo non hanno dimostrato l’efficacia nel controllo dell’evoluzione della malattia nei pazienti domiciliari di alcuno dei medicinali proposti da chi nel frattempo aveva dato vita ai cosiddetti “gruppi delle cure domiciliari” in aperta polemica con le istituzioni. Uno dopo l’altro, di molti dei principi attivi di cui era stata sbandierata l’efficacia terapeutica – idrossiclorochina, metformina, ivermectina – è stata dimostrata attraverso studi metodologicamente rigorosi l’inefficacia e, talvolta, anche la pericolosità [3].

Quanto conta l’esperienza clinica personale del singolo medico?

L’esperienza personale del singolo medico può innescare ipotesi di ricerca, aiutare a migliorare ancor di più le buone pratiche nelle cure primarie o nell’assistenza ospedaliera, ma non può sostituirsi alla ricerca clinica rigorosa su campioni ampi di popolazione. Soprattutto con una malattia come Covid-19 – che almeno nel 90% dei casi guarisce spontaneamente – per acquisire dati e conoscenze credibili occorrono studi che mettano a confronto strategie terapeutiche diverse su campioni adeguati di popolazione.

Di quali studi possiamo fidarci?

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Perché i risultati di uno studio siano credibili è necessario che siano messi a confronto i risultati in termini di salute ottenuti da trattamenti diversi somministrati a centinaia o a migliaia di persone. Come abbiamo spiegato in altre schede di Dottore ma è vero che? (ad esempio “La scienza dà risposte certe e immutabili?”, “Gli studi su Covid-19 sono tutti attendibili?” e “Gli studi clinici sono tutti uguali?”), la ricerca clinica può dare indicazioni affidabili quando è condotta in modo rigoroso, quando il disegno di studio è coerente con l’interrogativo di ricerca, quando le conclusioni tratte dai ricercatori sono in linea con i risultati ottenuti.

In generale, per valutare l’efficacia di terapie farmacologiche il disegno di studio più adeguato prevede la randomizzazione (quando i partecipanti allo studio ricevono “casualmente” una delle terapie in studio o il placebo), la presenza di un gruppo di controllo (cioè, in altre parole, i risultati ottenuti con una terapia sono messi a confronto con quelli ottenuti da un altro trattamento attivo o da un placebo), e la cecità (ovvero sia il paziente, sia il medico e l’infermiere responsabili della terapia non sanno quali pazienti ricevono il farmaco in studio, il farmaco di confronto o il placebo).

Che differenza c’è tra una rassegna narrativa e una revisione sistematica?

Tornando all’articolo citato in apertura, si tratta di una rassegna narrativa e non sistematica della letteratura disponibile, dal momento che i criteri di selezione degli articoli da considerare sono di tipo formale. È una differenza molto importante: preparando una revisione sistematica, un gruppo di ricercatori stabilisce preliminarmente un protocollo di ricerca in cui vengono descritte le azioni che saranno adottate durante tutto il processo di conduzione della revisione. In particolare, nel protocollo devono essere precisati i criteri di eleggibilità degli studi da includere nella revisione, le modalità con cui saranno identificati gli studi i cui risultati saranno considerati, e quelli che invece saranno esclusi per carenze metodologiche o di altro genere.

Le cosiddette rassegne narrative, invece, sono preparate seguendo una metodologia per certi aspetti meno rigorosa, non essendo esplicitati nei dettagli i criteri adottati per valutare le fonti: questo rende le rassegne narrative non replicabili da altri autori, a differenza delle revisioni sistematiche. L’obiettivo è fornire una panoramica sull’argomento di interesse, facendo affidamento in primo luogo sulla valutazione critica individuale dei dati che si ritiene utile discutere.

Per chiudere con una buona notizia, si può dire che la ricerca prosegue e sia le istituzioni internazionali, sia quelle nazionali continuano ad adattare costantemente le proprie raccomandazioni ai risultati degli studi di buona qualità metodologica.

(Fonte: dottoremaeveroche.it)