Views: 90
Nella ULSS Euganea effettuati 4.200 prelievi: i positivi sono circa lo 0,5% del campione, circa 18 persone
“Il percorso di Test & Treat è una strategia che viene utilizzata oggigiorno ed è stata forse presa in eredità anche dal campo dell’HIV, perché si è visto che i pazienti rimangono in cura più facilmente, il cosiddetto ‘linkage to care’, se vengono testati e trattati nel tempo più breve possibile. In effetti ci sono studi internazionali dai quali è emerso che, in particolare i pazienti che fanno uso di sostanze per via iniettiva, se saltano gli step previsti nelle condizioni normali e passano immediatamente al trattamento, ottengono risposte virologiche sostenute alla terapia più elevate rispetto al modello standard di cura, che prevede il test, gli esami di secondo livello, l’incontro con il medico, la prenotazione di ecografia, Fibroscan, la restituzione degli esami e l’inizio della cura. Invece, da altri studi si è visto che si può consegnare direttamente la cura al paziente, in attesa della risposta del test. Il paziente riceve la risposta telefonica e può iniziare immediatamente la cura, salta i controlli e le visite e, a fine terapia, fa il controllo finale”.
Lo ha spiegato la dottoressa Marina Malena, Responsabile UOS Osservatorio Infettivologico Aziendale- Azienda ULSS 9 Scaligera, intervenuta in occasione del corso di formazione ECM sulla gestione dei tossicodipendenti con epatite C.
Il corso, dal titolo ‘Il ruolo dei ser.D. nei percorsi facilitati di point of care per il trattamento dell’hcv nei consumatori di sostanze- Best practice ed esperienze a confronto sul territorio del Veneto Occidentale’, rientra nell’ambito di ‘Hand- Hepatitis in Addiction Network Delivery’, il progetto di networking a livello nazionale patrocinato da quattro società scientifiche (SIMIT, FeDerSerD, SIPaD e SITD) che dal 2019 coinvolge i Servizi per le Dipendenze e i Centri di cura per l’HCV afferenti a diverse città italiane”.
La dottoressa Malena ha poi tenuto a precisare che non esistono criteri più restrittivi per l’arruolamento in terapia. “Mentre in epoca pre-farmaci Daa, i cosiddetti farmaci antivirali ad azione diretta- ha ricordato- si usavano terapie come l’interferone, il peginterferone e la Ribavirina, che avevano pesanti effetti collaterali; quindi, era molto difficile tenere i pazienti in terapia, soprattutto pazienti difficili e complessi come nel caso di chi fa uso di sostanze, questi farmaci sono molto efficaci e molto ben tollerati. Ecco perché non ci sono restrizioni per i pazienti che fanno uso di sostanze. Addirittura, anche per i pazienti che utilizzano sostanze in fase attiva, e non solo con una storia pregressa di tossicodipendenza, non ci sono interazioni particolari con le terapie sostitutive utilizzate. Quindi è importante trattare anche tutti questi pazienti come pazienti che non usano sostanze, perché si ottengono alte risposte e, soprattutto, si riduce la trasmissione dell’infezione. Si riduce,quindi, l’incidenza e la prevalenza dell’infezione da HCV anche in queste popolazioni”.
Al corso ha preso parte anche il dottor Salvatore Lobello, Dirigente Medico, Ser.T. Padova- Azienda ULSS 6 Euganea, che ha inizialmente fatto il punto sulle politiche di screening nella regione Veneto.
“In regione Veneto- ha spiegato- sono in corso due progetti di screening, sia per la popolazione generale che per popolazioni target, che usano il finanziamento nazionale dedicato a tale scopo. Il progetto di screening per popolazioni target, ovvero quello dei Ser.T. e delle carceri, prevede uno screening a tappeto, che si sta portando avanti in regione Veneto in maniera molto forte ormai da tempo e per il quale i Ser.T. si stanno attrezzando sempre meglio, anche attraverso l’uso di test rapidi che possono consentire di effettuare uno screening molto veloce e anche molto semplice nella sua effettuazione. Per quanto riguarda, invece, la popolazione generale, si sta facendo un’azione sulle persone nate in fascia di età tra il 1969 e il 1989 e, allo stato attuale, siamo partiti in regione Veneto il 16 maggio e si sta portando avanti questo percorso con la partecipazione sostanziale di tutte le ULSS. Chiaramente siamo ancora in una fase iniziale e, ad esempio, nella ULSS 6 Euganea, dagli ultimi dati risulta che sono stati effettuati 4.200 prelievi e che i positivi sono circa lo 0,5% del campione, ovvero circa 18 persone”.
Infine, una panoramica sulla politica di ‘Point of care’ presso i Servizi per le Dipendenze del territorio. “Il raggiungimento della politica di Point of care nei Servizi per le Dipendenze è un fatto assolutamente possibile. Ovviamente, nei diversi Ser.T. del Veneto le situazioni sono molto diverse, perché alcuni dispongono sia di punti prelievi per la parte diagnostica, sia di una stretta cooperazione con i Centri prescrittori, che consente loro di poter agevolmente mantenere i pazienti all’interno dei Ser.T. anche durante la fase del trattamento. Questo non è un fatto che si verifica in tutti i Ser.T., quindi c’è sicuramente da migliorare la situazione di una parte anche abbastanza importante dei Ser.T. del Veneto, ma l’obiettivo è proprio quello di centralizzare all’interno del Ser.T. l’azione di diagnosi, di cura e di follow up dei pazienti con Epatite cronica C, con la collaborazione stretta dei centri prescrittori a cui i Ser.T. delle varie zone fanno riferimento”.
Chiedono una maggiore formazione e un inquadramento specifico
Gli infermieri chiedono una maggiore formazione professionale, un inquadramento specialistico che li definisca anche in rapporto alle altre professioni sanitarie, anche attraverso una laurea specialistica a indirizzo clinico. Sono alcuni dei risultati emersi dal lungo percorso di consultazione avviato nell’ultimo anno dalla federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche. Gli stati generali, aperti ai 460 mila iscritti agli ordini, sono il tema centrale dell’evento organizzato da Fnopi all’interno del forum risk management della sanità in corso ad Arezzo Fiere e Congressi.
I novemila professionisti che hanno risposto alla consultazione hanno posto al centro delle loro priorità anche il riconoscimento del ruolo infermieristico nelle équipe multiprofessionali, la valorizzazione dell’infermiere di famiglia figura centrale per garantire la continuità assistenziale fra ospedale e territorio, oltre a un aggiornamento continuo e mirato. Sfaccettature differenti, ma che hanno in comune il desiderio di ridefinire l’identità della professione, alla luce dell’evoluzione dei bisogni del sistema sanitario.
“È stata una risposta molto importante quella che è arrivata dai novemila colleghi che hanno partecipato- spiega la presidente della federazione Barbara Mangiacavalli- è stata quindi una partecipazione importante. Un filo conduttore che troviamo in tutte le proposizioni è la necessità, ormai non più procrastinabile, di lavorare sullo sviluppo specialistico della professione infermieristica. Oggi la professione infermieristica ha una laurea abilitante in tutti i contesti assistenziali, però è evidente che il bisogno di salute e la complessità del sistema sono diventati tali che questi tre anni spesso sono insufficienti per dominare un patrimonio di conoscenze sempre più ampio”.
I percorsi di formazione specialistica già esistono tuttavia, segnala Mangiacavalli, vanno ricondotti “verso le competenze specialistiche previste fin dagli anni ’90, vale a dire verso i profili dell’area medica, chirurgica, delle cure intensive, delle cure primarie e della salute territoriale, della salute mentale, dell’area pediatrica”.
Questo significa, avverte la presidente nazionale di Fnopi, “che abbiamo bisogno di investire in maniera importante sul rinnovamento dell’assetto formativo e quindi abbiamo bisogno di avere professori med 45 e ricercatori. In questo senso faccio un appello anche alle istituzioni, ma anche ai ministeri competenti perché il Pnrr per la missione quattro ha previsto risorse per un incremento importante dei docenti, c’è bisogno che ci sia un intervento di sensibilizzazione degli atenei, perché ne abbiamo ancora pochi per raggiungere questo obiettivo importante”.
Il tema della qualificazione della professione infermieristica, d’altra parte, è condiviso dall’utenza. “I nostri pazienti ci vogliono specializzati, care manager, case manager cioè conduttori del loro caso dal punto di vista organizzativo e assistenziale“, precisa la presidente della federazione che proprio ieri si è confrontata con la consulta dell’associazione dei pazienti che ha dato un responso combaciante con i risultati degli stati generali.