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Gender mainstreaming, uguaglianza, diritti, lavoro, pari opportunità, empowerment, dignità, occupazione, rappresentatività, conciliazione.
L’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, meglio nota come “astroSamantha” secondo la definizione fornita da molti media e social, ha recentemente svolto la sua attività lavorativa lontana dalla Terra e dalla sua famiglia, nello spazio, per circa sei mesi.
La notizia ma soprattutto la foto in cui lei saluta i suoi due figli lasciandoli alle cure del marito ha fatto il giro del mondo generando non pochi commenti quasi tutti legato al fatto percepito come evento straordinario di una donna che lascia i figli e svolge la sua attività lavorativa. Se la vicenda avesse riguardato un collega maschio sarebbe passata inosservata e non sarebbe stato tanto clamore. Invece, chiediamoci perché questa immagine è diventata virale? A mio avviso, nonostante i chilometri di letteratura dedicati alla parità di genere ancora oggi siamo fermi ad una concezione maschilista e discriminatoria che regolamenta i rapporti tra i due sessi soprattutto in ambito lavorativo. Restiamo folgorati se sulle prime pagine dei giornali capeggia l’immagine della giovane donna maltese che assume la direzione del Parlamento Europeo oppure ci stupiamo, anche le donne, quando un’altra donna diventa ministra o manager di importanti organizzazioni. Le aree semantiche che definiscono una donna sono quasi sempre denigratorie e stereotipate. Una donna che occupa una posizione sociale eccellente è sempre considerata con eccezionalità e spesso la conseguenza immediata è quella di ricondurla ad un contesto di familiarità e di circoscrizione. Tutte le donne che occupano posizioni lavorative di rilevo sono soggette a domande relative la conciliazione vita – lavoro. Nessuno rivolge domande di questa natura ad un uomo. Il problema non è solo culturale e sociale ma anche giuridico perché tutta la produzione legislativa in merito non affronta mai in maniera concreta il problema della parità generando i presupposti per una effettiva uguaglianza di genere. Ad esempio, la disciplina giuridica del congedo di maternità del nostro ordinamento prevede che la donna lavoratrice che ha partorito un figlio possa rientrare nel mondo del lavoro esattamente dopo tre mesi dalla nascita del bambino. Infatti, se decide che allattare non sia una priorità utilizzerà il 70% del suo stipendio per pagare una baby-sitter perché molti asili nido non accolgono bimbi così piccoli e soprattutto esistono forti disparità, in termini di posti disponibili e popolazione residente tra le venti Regioni italiane nell’accesso a questo servizio. Se invece sceglie di restare a casa e prendersi cura del piccolo vedrà decurtato il suo stipendo del 70%. Un approfondimento a parte sarebbe da dedicare al congedo di paternità, 10 giorni di congedo per il padre del nascituro una conquista epocale ma non per tutti solo per il lavoratore privato. Anche un non addetto ai lavori si renderebbe perfettamente conto di come la situazione sia in netto squilibrio a sfavore della donna. A complicare ancora più il quadro del ruolo della donna lavoratrice la partecipazione della stessa al lavoro. Infatti, nel nostro Paese il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi d’Europa così come il gap salariale tra uomini e donne e la facilità nelle progressioni di carriera. Quale è il peso del gap tra uomo e donna nel mondo del lavoro? La sintesi nel rapporto OCSE THE pursuit of Gender Equality: an uphill battle, come riporta Il Sole 24ore di qualche anno fa fornisce un quadro per il nostro Paese dolente, soprattutto, sul fronte dell’occupazione e della conciliazione con le responsabilità della famiglia mentre sembra migliorato negli aspetti di istruzione e di governance. Alcuni numeri: nel 2017 il tasso di partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è del 48% contro il 66% dei maschi con un gap del 18 % rispetto ad una media Ocse del 12 %. Una donna dedica al lavoro non pagato 315 minuti al giorno e 197 a quello retribuito, mentre un uomo con un’occupazione dedica al proprio lavoro circa 349 minuti al giorno e riserva alle mansioni non retribuite appena 105 minuti al giorno. Nei paesi nordici questo divario è di gran lunga più contenuto e la risposta è da ricercare nelle politiche di welfare che garantiscono alle donne servizi di assistenza all’infanzia di ottima qualità. Dai dati del Bilancio di genere 2021 a cura del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, in Italia meno di una donna su due lavora; dal 2013 fino al 2019 l’occupazione femminile è calata al 49% (in Europa le donne occupate sono circa il 62%. Inoltre, la pandemia ha notevolmente aumentato le differenze di genere a svantaggio della donna. Maggiormente penalizzate le donne del Sud Italia dove solo il 32,5% sono occupate. Questa è la situazione attuale nonostante nel tempo siano stati avviati interventi normativi volti a ridurre il gap di genere in tema di lavoro e occupazione e promuovere condizioni di pari opportunità. In effetti, il sistema normativo italiano sembra garantire una sostanziale parità giuridica per quanto riguarda le regole di accesso al lavoro unitamente alle regole di svolgimento dello stesso. In estrema sintesi le novelle si muovono da tempo in un’ottica di progressiva eliminazione delle discriminazioni fondate sul genere e di adozione di sempre maggiori tutele. Ricordiamo, l’uguaglianza retributiva stabilita dai CCNL di settore (oltre che universalmente tutelata dagli artt. 2099 C.c., e art. 36 Cost.) e di trattamento normativo. Le norme di diritto positivo vigenti in Italia appaiono quindi orientate verso l’obiettivo dell’abbattimento delle diseguaglianze. Vorrei rivolgere l’attenzione su quella che è stata la scelta normativa più incisiva in tema di pari opportunità ossia l’approvazione della legge n. 125 del 1991 meglio nota come legge sulle azioni positive o discriminazioni alla rovescia. Come sappiamo le misure di tutela contenute nella legge n. 125, oggi trasfuse nel Codice di Pari Opportunità del 2006, mirano soprattutto per il settore privato alla formazione professionale, alla modifica degli assetti organizzativi delle imprese, alla promozione della conciliazione tra lavoro di cura familiare e lavoro professionale affidati al modello volontario incentivato. Invece per il settore pubblico, la norma impone l’obbligatorietà di elaborare un piano triennale per la realizzazione delle pari opportunità e di attuare un meccanismo di correzione della sottorappresentanza. Di fatto, le azioni positive sono norme di diritto diseguale che realizzano una discriminazione alla rovescia a favore della donna e in generale mirano ad eliminare tutte quelle forme di disparità a scapito della donna come ad esempio nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, ovvero nel trattamento economico e retributivo e nei periodi di mobilità. Tra gli obiettivi della norma anche il superamento della sottorappresentanza soprattutto in ambito politico e il lavoro autonomo e la formazione imprenditoriale. Ad esempio, è il risultato di un’azione positiva l’art. 6 della legge n. 236 del 1993 che poneva il divieto di collocamento in mobilità di una percentuale di donne superiore a quella in precedenza occupata con riferimento alle mansioni oggetto della riduzione e anche la norma all’art. 8 della stessa legge in merito ai criteri di scelta dei lavoratori da mettere in mobilità o da licenziare per riduzione di personale al fine di evitare anche l’inosservanza dei principi di discriminazione.
Ancora, nascono da azioni positive le misure di «conciliazione» tra sfera professionale e sfera di cura familiare e di condivisione tra i partners come quelle indicate nel t. u. n. 151 del 2001, per la tutela e il sostengo della maternità e paternità.
Anche le norme relative all’articolazione degli orari di lavoro, nonché di lavoro a tempo parziale, contenute in alcuni contratti collettivi. Per esempio, per il settore della magistratura la realizzazione delle pari opportunità ha permesso di implementare misure efficaci dal punto di vista della conciliazione tra lavoro professionale e vita familiare.
Inoltre, ricordiamo il D.P.C.M. Del del 1999 (c.d. direttiva Prodi) recepito a livello a livello regionale, ed ha ispirato l’adozione di servizi nel campo dell’assistenza familiare, in quella a favore dei disabili, oppure per finanziare forme integrate tra orari pubblici ed orari di lavoro (banche dei tempi etc.) secondo strategie intese a superare l’ambito circoscritto delle azioni positive a livello aziendale. Esempi questi ultimi che entrano a pieno titolo nei percorsi di “gender mainstreming” introdotti dalla piattaforma di Pechino e finalizzati a realizzare le pari opportunità in tutti gli ambiti rilevanti. Sull’argomento si assiste ad una continua evoluzione normativa come la revisione dell’art. 51 della Costituzione, Introdotta dalla l. Cost., N. 1 del 30 maggio 2003, per effetto della quale la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. Le azioni di tutela contro le discriminazioni e le pari opportunità sono riconosciute dalla legge n. 125/1991 a specifici organismi pubblici, il comitato nazionale e le consigliere e i consiglieri di parità, così come organismi privati, quali i sindacati e datori di lavoro. La sintetica panoramica di differenti strumenti conciliativi è la dimostrazione che nella letteratura di settore si possono e si potrebbero trovare molte altre proposte e idee per ampliare il quadro. Grosso modo si può tentare di distinguere le aree degli interventi conciliativi orientati ad aumentare il tempo in famiglia; a rendere meno gravoso ed assillante il carico familiare in concomitanza con l’attività lavorativa; ad organizzare i tempi della città in modo da agevolare lo svolgimento della vita familiare. Comunque questi interventi non sembrano bastare infatti, dovrebbero affiancarsi altre aree per così dire di intervento indiretto, come la creazione di una specifica cultura in tema di conciliazione vita-lavoro, capace di qualificare le politiche pubbliche e le iniziative private come family friendly ossia indirizzata a studiare nuove forme organizzative volte a rendere migliori e più efficaci gli strumenti conciliativi esistenti. Infine, è il cambiamento culturale la condizione fondamentale per realizzare una condizione di parità vera con l’avvio di percorsi di sensibilizzazione a vari livelli alla stregua di un principio di uguaglianza sostanziale.
Patrizia Merlo Numero iscrizione CNOAS 1039
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