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“Messina tra macerie e incanti”:  Maria Costa, “Sibilla dello Stretto”

“Messina tra macerie e incanti”:  Maria Costa, “Sibilla dello Stretto”

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di Giuseppe Ruggeri

“Messina tra macerie e incanti” di Giuseppe Ruggeri, con prefazione a cura di Sergio Di Giacomo, è una raccolta di articoli, conferenze e introduzioni che l’Autore ha collazionato e stampato in proprio, per offrire ai lettori uno spaccato di vita cittadina ripercorso attraverso personaggi, libri ed eventi della sua storia. Ma anche attraverso i numerosi musei, presenti in città e dintorni, testimoni della memoria cittadina. Una memoria segnata da grandi catastrofi ma pure dalla tenace volontà di risorgere dalle proprie ceneri dopo ogni disastro.

Parecchie ancora, a Messina, le “macerie” di tante distruzioni, dietro le quali, però, occhieggiano altrettanti “incanti” che un occhio innamorato, come quello dell’Autore, non può non cogliere e far assurgere a simbolo dell’auspicato rinascimento di un’Urbe che fu un tempo – così come la definirono i nostri padri Latini – “civitas locupletissima”.


E, a proposito di Stretto, il pensiero va subito a Maria Costa. Nata nel popolare quartiere detto “delle Case Basse”, nel cuore della riviera nord, Maria Costa rappresenta una delle voci poetiche più elevate di Messina. Favole, miti e leggende di quel braccio di mare che Edoardo Giacomo Boner ha definito “Bosforo d’Italia”, hanno costituito la trama dei suoi versi ormai riconosciuti e apprezzati da studiosi e appassionati di tutto il mondo. Versi che cantano una Messina che non c’è più, ma la cui memoria è mantenuta viva da un rosario di storie e tradizioni che animano il presente, saldandolo con forza al proprio passato. Di questo passato, intriso di riti e racconti marinari, di pescatori che predicono i venti e narrano di mostri e divinità con eloquente solennità, Maria Costa si è resa preziosa e irripetibile interprete, consegnandoci così un’eredità di parole e gesti che difficilmente potrà essere dimenticata.

Scrive di lei Giuseppe Cavarra: “In Maria Costa la poesia nasce come bisogno di estrinsecare la propria esperienza, perché sia di giovamento a tutti lungo la

strada comune, come modo di rivivere con sofferenza il dolore degli uomini. Una scrittura poetica la sua, come apertura al dialogo, come fiducia nella forza della parola che scava in profondità senza infingimenti o compiacimenti. Ciò fa sé che nella Poetessa di Case Basse la parola poetica si faccia di volta in volta senso ritrovato di un’umanità che non conosce limiti, partecipazione sofferta e silenziosa alle ragioni degli altri”.

Vede la luce nel dicembre del 1926 tra le mura della casa che il padre Placido, pescatore e affabulatore, i cui “cunti” le fan presto nascere la passione per la poesia, ha edificato nel 1890 sulle rive che, dall’alba al tramonto, sporgono sul continente. Una spiaggia d’incantevole fascino distesa ai piedi di un mare padre e padrone, lo stesso mare dal quale, il 28 dicembre 1908, si era sprigionato il più temibile dei mostri, che in pochi secondi aveva raso al suolo quaranta secoli di storia. Maria non aveva assistito al disastro, all’epoca non era ancora nata ma nei versi accorati di alcune sue poesie vibra il dolore e lo sgomento della sua memoria ferita. Una partecipazione, quella alla storia della sua città, che la Costa mantenne inalterata per tutta la vita, quale elemento fondante della sua personalità, oltre che della sua cifra poetica.

Personalità forte e dirompente, come può testimoniare chi la conobbe, Maria Costa affascinava da subito i suoi interlocutori rapiti dal modo che aveva di recitare i suoi versi con la sua voce stentorea, ove gorgogliavano suoni antichi dal timbro e sapore profetici. Anche per questo motivo, era soprannominata la “Sibilla dello Stretto”, quasi a conferire una dimensione sacrale a un canto che scaturiva dalle oscure profondità dell’anima.

Nata da una numerosa famiglia d’umili origini nella prima metà di un secolo funestato da guerre e cataclismi, Maria Costa trascorre la sua giovinezza in un quartiere all’epoca popoloso, un pugno di case poste sotto il livello della strada costruite nell’Ottocento e abitate da pescatori. Case figlie di quel mare che, insieme ai venti che lo dominano, la Poetessa assurge presto a simbolo stesso della sua città che appunto sul mare è nata e da cui trae vita e ricchezza. Una vocazione che mai sfugge a Maria, consolidandosi sempre più negli anni e che viene sottolineata dalle tante immagini d’epoca che la raffigurano inquadrata sullo sfondo dell’amata distesa azzurra.

Ma non è il mare solamente a campeggiare alle spalle dell’ancora giovane e vigorosa Poetessa, in altre

immagini si vedono gli alberi piantati nel cortile di casa. In un’altra immagine Maria posa a fianco del padre, a lui accomunata dal volto abbronzato i cui tratti asciutti e decisi, denotano la lunga consuetudine all’arte marinara. Un’altra immagine ancora raffigura la riviera del quartiere prima che le colate di cemento negassero ai suoi abitanti la familiare vista del mare. Sullo sfondo le morbide colline peloritane, esse pure non ancora deturpate dagli innumerevoli complessi edilizi che oggi macchiano il loro rigoglioso manto verdeggiante.

Il tempo trascorre all’ombra del piccolo pozzo collocato davanti alla casetta che Maria Costa ha eletto come luogo dell’anima, fonte primaria della sua ispirazione poetica. L’artista e devoto amico Pippo Crea si offre di abbellirla dipingendovi figure, immagini e versi connessi all’attività letteraria della Costa. E’ il primo nucleo del piccolo museo, diventato poi centro studi, che oggi rinnova il ricordo e l’opera di Maria e il valore che quest’ultima riveste nella conoscenza di quello straordinario scrigno di ricchezza lessicale che è il dialetto marinaro di Case Basse. Come acutamente spiega Giuseppe Rando, per il quale alla Costa “si deve (…) la salvezza del patrimonio linguistico protonovecentesco dei pescatori della Riviera del Faro di Messina: avendolo

la poetessa codificato sulla pagina scritta (e stampata), quel linguaggio ha difatti acquistato la stabilità della lingua”.

Il Comitato “Antico Borgo Marinaro delle Case Basse”, l’UNESCO e la Regione Siciliana affiancano il Centro Studi che oggi porta il suo nome. Costituitosi nel 2017, il Centro promuove la figura e l’opera di Maria Costa organizzando incontri, convegni, gare poetiche, letture, visite guidate, incontri didattici. Gli interni della casa, poche e piccole stanze – un ingresso, cucina, ripostiglio, camera da letto, bagnetto – riflettono l’estrema semplicità di una quotidianità vissuta nel sereno flusso di ritmi antichi e regolari. L’ingresso ospita una libreria che custodisce i testi della Poetessa oltre a volumi di altri autori liberamente elargiti, e una vetrina di fotografie raffiguranti diversi momenti della sua vita privata. Nella stanza da letto, dove nel settembre 2016 morì, sono esposti i suoi numerosi trofei di concorsi e riconoscimenti letterari, tra cui i Premi Buttitta e Colapesce.

Nel 2006, il nome di Maria Costa è stato inserito nel Registro dei Tesori Umani Viventi – Patrimonio Unesco, della Regione Siciliana.

La voce di un popolo alacre, attento ai fenomeni

naturali e partecipe della vita quotidiana e dei suoi riti, affiora nei versi di Maria Costa che pertanto poetessa “popolare” è a tutti gli effetti, perfino in quelli, trasognati, della visione.

La cultura popolare, infatti, rigurgita abitualmente di visioni. I suoi “cunti” attingono, oltre che alla realtà, anche a quella particolare forma di fantasia che rende l’immaginario plausibile, rivestendolo d’impressionante verosimiglianza. Accade questo ad esempio per i miti, che attraversano i millenni e puntualmente si ripresentano, da una generazione all’altra, in tutta la loro freschezza e attualità.

I miti abbondano nella poetica di Maria Costa, ne costituiscono la trama portante dispiegandovisi come gemme che via via sbocciano dal fusto di una pianta. Mitiche sono le ricorrenti visioni che la poetessa ha dello Stretto, di cui in modo mirabile la Costa raffigura gli incanti di Fata Morgana, il commovente eroismo di Colapesce, la furia devastatrice di Scilla e Cariddi. Tali miti giustificano, in tutto o in parte, la fenomenologia naturale di venti, correnti e terremoti che si abbattono su di un’isola posta proprio nel cuore del Mediterraneo, il quale è a sua volta cuore del mondo. Un luogo, pertanto, ove non poteva non esserci posto per la favola, che è vera perché attinge a presupposti di autentica realtà.

Ma un’altra e non meno importante caratteristica connota la poesia di Maria Costa, vale a dire il recupero della parola – estratta a fatica dalla scrittura – una parola che riecheggia l’oralità dei “cunti” tramandati di padre in figlio, e che grazie a questo recupero riesce a risuonare in tutta la pregnanza simbolica della sua espressione. Vocaboli propri di una cultura che potrebbe sembrare assai diversa dalla nostra, una cultura “altra”, risalente agli anni pre-terremoto e d’impronta tipicamente marinara, riaffiorano in un vortice che ricorda quello delle correnti dello Stretto. E, con essi, riaffiora anche il nostro passato.

Non può allora che tradursi in voce – e dunque in canto – il verseggiare della Costa, spesso scandito da pause potenti che rievocano la risacca delle onde contribuendo a creare in chi ascolta la sospesa attesa di una rivelazione che sta per arrivare. Una poesia per alcuni versi “escatologica”, indirizzata cioè verso un fine preciso, quello di tentare di far luce sul mistero di un territorio magico – lo Stretto di Messina – avvolto nella leggenda fin dalla notte dei tempi.

La fioritura del mito non impedisce tuttavia che trovi pure rappresentazione nei versi della Costa il soffiare dei suoi amati venti, il distendersi della

battigia ai piedi del piccolo borgo di Case Basse, l’incedere sontuoso di alcuni personaggi della Messina di una volta – come Pidocchia e Cammaroto – simboli umani di un’identità forte, legata a un tempo remoto che non smette di esercitare la sua presa sul nostro presente. Una Messina – quella di una volta – che batte sempre nel cuore della Costa, cogliendo espressione inimitabile nella lirica dedicata al terremoto del 1908, un palpito solo di angoscia e sofferenza per l’immensa catastrofe che, in men che non si dica, la rase al suolo.

Sostanziati di mito e realtà, di leggenda e cronaca sono dunque i versi della Costa, che per trasmetterli impiega un registro lessicale popolare e alto al tempo stesso, rivelando notevole padronanza tecnica dei mezzi espressivi, il che fa da “pendant” a una non comune capacità creativa e affabulatoria, ambedue tipiche dell’“arte” propriamente intesa.

La poesia di Maria Costa, insomma, è un lascito prezioso che contribuisce non poco all’arricchimento del nostro bagaglio complessivo culturale di cui essa chiarisce, a più riprese, l’essenza radicale profonda; un lascito di bellezza, altresì, per la straordinaria suggestione artistica che riesce a produrre in chi ne legge i versi tanto più e meglio se ha avuto modo di ascoltarli dal solenne declinare della sua stessa voce.

Il volume “Maria Costa – Poesie e prose siciliane” (Pungitopo Editrice, 2021), raccoglie il “corpus” della produzione edita della poetessa di Case Basse. Vi si muovono personaggi, miti e riti di una Messina d’altri tempi, abitata da uomini coriacei, di poche parole, adusi al sole e ai venti dell’eterna avventura per mare. Uomini come il nonno di Maria, con “facci d’un pirata: nasi a uncinu, a menzu marinaru, l’occhi tagghienti comu o pisci matteddu” che hanno segnato l’epopea del mare, scrigno del mito e della storia della nostra città.

La silloge raccoglie l’intero corpo delle opere edite della Costa, ormai a pieno titolo entrate nella tradizione dialettale isolana dal momento che non di semplici componimenti in vernacolo si tratta, bensì di liriche che sondano gli abissi dell’animo al ritmo dello “scinnenti” e del “muntanti”, le correnti che agitano lo Stretto da epoca immemorabile. Fin da quando Odisseo, in ritorno verso Itaca, solcò con le sue navi il mare colore del vino che separa la Sicilia dal resto del continente incontrandovi i gorghi di Scilla e Cariddi e il mortifero canto delle Sirene.

Quasi cinquecento pagine introdotte da Sergio Todesco e cucite insieme dalla passione e la professionalità del Centro Studi che dalla poetessa

prende il nome, i cui soci fondatori hanno curato la pubblicazione per la prestigiosa casa editrice fondata da Nino Falcone, la stessa con la quale Leonardo Sciascia pubblicò il suo “Ore di Spagna”. Nel segno di una identità che Lucio Falcone, figlio di Nino, coltiva a tutt’oggi con amorevole cura e pazienza. Un’identità resa anacronistica dall’insidia del moderno globalismo e che invece è la cifra della nostra origine di siciliani. E che Maria Costa, con la incisiva “popolanità” dei suoi versi e lo scandaglio della sua grande umanità riporta in superficie evocando personaggi della Messina che non c’è più e che i colori della sua poesia, infarcita di simboli e suoni onomatopeici prodigiosamente resuscitano.

Cosa aggiungere? Solo un sommesso consiglio di lettura, magari preceduto dal momento catartico in cui immerge la vista della magnifica copertina blu cobalto, il colore del mare – e, di riflesso, del cielo – che hanno accompagnato i quasi novant’anni di vita di Maria. Una vita vissuta a tu per tu con un mondo ormai quasi del tutto seppellito dall’orrida superfetazione edilizia che ha stravolto per sempre lo storico quartiere delle Case Basse, un fazzoletto di alloggi di pescatori che ha resistito financo al maremoto del 1908. L’alfabeto di quei pescatori rivive oggi nei versi di Maria Costa alla quale – come

suggerisce Giuseppe Rando nell’acuta sua prefazione – “si deve (…) la salvezza del patrimonio linguistico protonovecentesco dei pescatori della Riviera del Faro di Messina: avendolo la poetessa codificato sulla pagina scritta (e stampata), quel linguaggio ha difatti acquistato la stabilità della lingua”.