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di Giuseppe Ruggeri
“Messina tra macerie e incanti” di Giuseppe Ruggeri, con prefazione a cura di Sergio Di Giacomo, è una raccolta di articoli, conferenze e introduzioni che l’Autore ha collazionato e stampato in proprio, per offrire ai lettori uno spaccato di vita cittadina ripercorso attraverso personaggi, libri ed eventi della sua storia. Ma anche attraverso i numerosi musei, presenti in città e dintorni, testimoni della memoria cittadina. Una memoria segnata da grandi catastrofi ma pure dalla tenace volontà di risorgere dalle proprie ceneri dopo ogni disastro.
Parecchie ancora, a Messina, le “macerie” di tante distruzioni, dietro le quali, però, occhieggiano altrettanti “incanti” che un occhio innamorato, come quello dell’Autore, non può non cogliere e far assurgere a simbolo dell’auspicato rinascimento di un’Urbe che fu un tempo – così come la definirono i nostri padri Latini – “civitas locupletissima”.
Perché il mare è importante per Messina? Perché rappresenta la vocazione naturale del suo territorio, il che equivale a dire che non esiste attività – dall’imprenditoria alla cultura – che possa prescindere dal mare. E non mi riferisco soltanto alle infinite declinazioni artigianali – pesca, industria nautica, produzione enogastronomica – ma anche e specialmente all’indotto economico derivante dal proficuo impiego di questa immensa risorsa naturale. Mare significa inoltre infrastrutture e dunque trasporti, turismo.
Ma mare vuol dire pure, e soprattutto, riflessione a tutto campo su quella che è stata la storia della nostra città. Proprio grazie a questa riflessione Messina – e i messinesi – potranno acquistare coscienza del loro ruolo ottemperando così all’obbligo, in carico a ciascuna comunità, di svolgere una parte nella complessiva costruzione dell’assetto sociale. Al di fuori d’ogni possibile logica di campanile sia chiaro, ma pur sempre serbando in sé quel saldo senso d’appartenenza necessario alla loro
complessiva autostima che, negli anni, appare sempre più in declino.
Per farlo, occorre agire sui complessi dinamismi sottesi alla “reidentificazione” di Messina con il suo mare e, pertanto, con le correlate potenzialità produttivo-economiche e di recupero valoriale. Un processo reidentificativo che probabilmente dura da anni ma non ancora, evidentemente, in misura abbastanza efficace per sortire risultati apprezzabili. Esempio ne sia, uno tra tutti, la mancata riqualificazione del “waterfront”, il che, differentemente da quanto in molti credono, non rappresenterebbe una mera opera di maquillage estetico, bensì un’autentica “rivoluzione” in termini di riacquisizione di coscienza identitaria.
E’ da questa coscienza che deve ripartire il conto alla rovescia che prelude al lancio – anzi al “rilancio” – di Messina verso il futuro. Un futuro che bisogna avere il coraggio d’intestarsi come messinesi attivi e mai passivi, pronti a scommettersi sul non facile terreno delle sfide di una contemporaneità sempre meno attenta ai valori rispetto al profitto. E’ con questa contemporaneità che i messinesi devono misurarsi, mirando a essere protagonisti e non antagonisti, esclusivi, certo, ma anche inclusivi, senza mai dimenticare che il mondo è bello perché è vario e, se
si vuole, c’è sempre spazio per tutti. Proprio come nel mare.
“Spalle al mare” è un titolo che ha il sapore di un rimprovero. Un rimprovero rivolto ai messinesi (e ai siciliani in genere) nel costatare il consapevole abbandono di quella che è sempre stata la risorsa più importante del nostro territorio. Il mare, che circonda a raggiera la Trinacria fin da tempi remoti, rappresenta il simbolo di una possibilità di espansione verso orizzonti che si collocano fuori dall’isola. Eppure noi, in questi ultimi venti anni quantomeno, abbiamo pervicacemente voltato le spalle alle nostre acque, rendendole un confine invalicabile, un muro eretto tra la nostra “isolitudine” e il resto del mondo.
I motivi di tanto colpevole abbandono esplora Mario Primo Cavaleri, giornalista professionista di razza e attento analista politico che dalle pagine della “Gazzetta del Sud”, di quest’epoca ha colto ed esaminato le diverse e spesso contraddittorie posizioni (e contrapposizioni) di cui Messina e la Sicilia si sono rese protagoniste, spesso purtroppo tutt’altro che in senso positivo.
Di tanto rende evidenza il sottotitolo “1998-2018:
Messina e la Sicilia travolte dal solito destino” il quale, rievocando la celebre pellicola di Lina Wertmuller interpretata da Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, sembra dirla lunga sulla “irredimibilità” del popolo siciliano che Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo celebre romanzo, pone al centro del paradigma isolano. Un destino articolato in distinte congiunture storiche in cui è possibile leggere, in filigrana, la sostanziale manchevolezza dei messinesi, e dei siciliani in genere, nel cogliere le occasioni che avrebbero potuto contribuire a un loro decisivo sviluppo in ambito economico internazionale.
Di questa perigliosa tendenza, non si capisce bene fino a qual misura consapevole, si connota il nostro milieu isolano fin dal 1946, anno della firma dello Statuto Siciliano, in realtà mai compiutamente applicato, passando anche per il Trattato Europeo del 1955 che vide riuniti a Messina ben sei ministri degli esteri del Vecchio Continente, sotto la guida del messinese Gaetano Martino.
E sono proprio questi i due grandi avvenimenti che Cavaleri pone subito dinanzi alla nostra attenzione, quali punti di partenza da cui si dispiega la sua approfondita analisi del nostro modo d’essere siciliani. Momenti che potevano significare per noi
occasioni di grande scommessa internazionale, e che invece ci siamo lasciati passare davanti per indifferenza o, forse, per mancanza di spirito critico. E difatti la sintesi finale del libro, secondo il prefatore Pierangelo Buttafuoco, sembra consistere proprio nella contraddizione, la sfida irrisolta tra spirito critico e “le famose cose come stanno”. Una contraddizione che continua ad animare i nostri comportamenti, e che ha permesso nel 1998, proprio quando il dicastero Difesa era affidato al messinese Antonio Martino, il mancato appropriamento da parte della città dell’area militare dell’Antica Cittadella.
Una sconfitta dopo l’altra, la storia di questi ultimi venti anni scorre nelle pagine di “Spalle al mare” dettata da una penna lucida e consapevole, attenta alle trasformazioni che inevitabilmente l’evoluzione dei tempi ha comportato e che hanno reso il nostro territorio ogni giorno più fragile, tanto da essere collocati agli ultimi posti tra le regioni d’Europa.
Eppure questo territorio vanta inestimabili ricchezze storico-architettoniche e il maggior numero di siti Unesco, un autentico giacimento di bellezze che aspettano soltanto di essere valorizzate affinché possa conseguirne il meritato indotto economico e commerciale.
Una cronaca puntuale, quella di Cavaleri, che mette a fuoco tanti grandi avvenimenti – la conurbazione dell’area dello Stretto, l’iter progettuale del Ponte, l’approdo di Tremestieri, l’inaugurazione dell’autostrada Messina-Palermo, per citarne solo alcuni – con tutte le loro luci e ombre. Avvenimenti che hanno contrassegnato la storia di questi anni, rimasta ormai alle nostre spalle esattamente come quel braccio di mare che ci separa dalla terraferma, quel continente misterioso e irraggiungibile che dovrebbe costituire l’obiettivo dei nostri sforzi e che invece continuiamo ostinatamente a ignorare come se non dovesse mai riguardarci.
Le colline di Messina guardano sempre verso il mare, ritrovandovi le cifre essenziali della rinascita cittadina. Dalle onde del mare, infatti, è affiorato, nel corso di millenni di pazienti stratificazioni geologiche, il sinuoso profilo falciforme che recinge il suo magnifico Porto naturale. Dal mare provennero dapprima i Siculi, e quindi i Calcidesi che nell’odierna area portuale fondarono i primi insediamenti abitativi. Un mare ferace, poiché ha fornito sostentamento ai popoli che vi hanno trovato sede, ma anche feroce, come narra la leggenda omerica che lo descrive infestato da terribili mostri marini. Da
quel mito radicato nella storia come una pietra preziosa nel suo castone, necessariamente dobbiamo procedere per capire il motivo del legame di Messina con un mare dalle acque talmente profonde da ospitare pesci abissali dai curiosi orrendi profili adatti alla smisurata pressione di quei fondali, oscuri come il mistero che avvolge, da epoca immemorabile, l’isola di Trinacria.
E mare vuol dire Stretto, e Stretto a sua volta Porto, e dal porto, a cascata, ecco venir giù tutta una serie di simboli e immagini impressi ormai a fuoco nel nostro immaginario collettivo a sostanziare l’indissolubile legame di una comunità con il suo territorio. Una storia di secoli i cui eventi sono legati da un “fil-rouge” costante e inossidabile: la vocazione, o, come si dice oggi, il brand “Messina porta della Sicilia”.
Su queste due direttrici, orbene, è oggi possibile ricostruire la vicenda di Messina e coglierne il senso pieno. Stretto e Porto costituiscono due momenti successivi dell’evoluzione storica della città, nel segno di questo suo brand tipico e caratterizzante. Un momento naturale e uno antropico – il connotato paesaggistico che l’opera umana trasforma e arricchisce in nucleo di sviluppo economico e civile.