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di Giuseppe Ruggeri
La scomparsa di Silvio Berlusconi – che forse in modo troppo semplicistico Elly Schlein liquida come “la fine di un’epoca” – ha da subito dato il via a un animato e diffuso dibattito a livello internazionale. L’era berlusconiana, nel bene e nel male, ha difatti segnato un trentennio di storia non solo italiana – come peraltro attestano, in questi giorni, gli innumerevoli titoli di testate di tutto il mondo. Berlusconi – e il berlusconismo – hanno innescato profonde e sensibili modificazioni del tessuto non solo politico ma anche e soprattutto sociale italiano. L’imprenditorialità dell’uomo – vale a dire la sua estrema capacità di mutuare in politica modi e tempi di tipo prettamente aziendale – ha mutato in maniera radicale il rapporto tra elettori ed eletti. Il linguaggio “politichese”, appannaggio della generazione precedente, quella della cosiddetta “prima repubblica”, è stato definitivamente accantonato per lasciar spazio a una comunicazione più rapida e snella, e soprattutto chiara. Questo perché Berlusconi è stato, soprattutto, un grande comunicatore. Non è stato lui a inventare la televisione ma di certo l’ha rivoluzionata, ampliando il ventaglio dei vantaggi – e degli svantaggi – connessi all’uso di questo prodigioso strumento. Con lui il culto dell’immagine ha raggiunto livelli prima impensabili. Quest’immagine è diventata un’Icona. Esattamente come lui. Pensavo probabilmente cose di questo tipo quando, molti anni fa, abbozzando una specie di autobiografia (mai pubblicata), così ragionavo:
“Era stato il secolo dell’Icona. Fin dal suo inizio questa potenza dapprima muta poi sempre più assordante aveva dardeggiato da schermi di ogni dimensione la sua sfida all’uomo che voleva proclamarsi moderno. Una modernità intrisa di colori accesi e suoni assordanti, la quale aveva soppiantato dovunque il raccoglimento, la pace suprema che il pensiero consente di raggiungere quando, superato lo sgomento che si prova a salire ad altezze vertiginose, questa sorta di vuoto d’aria cede gradualmente posto a una piana contemplazione dell’insieme. Insieme di nubi che, come soffici spugne, accarezzano i tuoi piedi, insieme di tinte sfumate, insieme di pinnacoli puntuti che costellano un universo di cui, improvvisamente, sembra di scorgere i confini.
Dare un nome, un colore, una voce, al pulviscolo saettante che faticava a restare compresso dietro una sorta di grande telo bianco non era stato difficile. Vi si erano impegnati personaggi di vario calibro ed estrazione che avevano riunito i propri sforzi immaginando qualcosa di più del succedersi atono delle sequenze, del loro scorrere spesso frenetico che le faceva sembrare più comiche di quanto in realtà non fossero. Il senso del grottesco nasceva già allora, in anni in cui pochi avrebbero potuto prevedere che esso avrebbe finito per improntare un’epoca intera.
Ovviamente, in questo panorama di dedizione pressoché totale all’Icona non potevano non nascere gli esperti – critici, si facevano chiamare – incaricati di studiare, esaminare, cogliere gli aspetti più significativi del fenomeno e, di conseguenza, propalarlo ai quattro angoli del mondo. Tutti, proprio tutti dovevano essere a conoscenza delle meraviglie dell’Icona, degli effetti a dir poco prodigiosi che l’invenzione suscitava. E, siccome era il secolo delle grandi scoperte, di quelle che – appariva ormai chiaro – avrebbero cambiato la faccia del pianeta, la diffusione dell’Icona andò di pari passo con l’aumento degli scambi internazionali, l’incremento delle vie di comunicazione, in una parola la globalizzazione. Dovunque si parlava in termini di gemellaggi di vario tipo – tra città, nazioni, continenti – e tutti nel medesimo spirito di solidarietà sociale, impegno e via dicendo. Un’era nuova sorgeva. L’era dell’Icona”.