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di Giuseppe Ruggeri
Con Milan Kundera noi, nati nella seconda metà del secolo scorso, abbiamo in qualche modo convissuto, sia pure nei modi (e nei vizi) della letteratura mescolata alla vita reale – tutte quelle letture, cioè, da cui ha preso forma e motivo il nostro sguardo sul mondo. Una letteratura colta eppure mai elitaria, espressione di una visione privilegiata e che, tuttavia, aspira a rivolgersi a un pubblico il più ampio possibile.
Dell’epoca narrata da Kundera – quella delle rivolte, la quale rivelò, in tutta la sua spietatezza, il fallimento del sogno comunista – noi, nati in quella fatidica seconda metà, abbiam vissuto solo il riverbero, proiettato in quella scia sanguinosa del Sessantotto che furono gli anni di piombo. L’eco delle violenze di strada, delle bombe e dei crimini di Stato perpetrati in quegli anni la portiamo dentro, perché è l’eco della nostra crescita in seno a una società ancora impreparata a cogliere gli avvisi del cambiamento. Un cambiamento che doveva, di necessità, passare dal rifiuto di ogni conflitto dopo l’ecatombe dell’ultima guerra mondiale, e che invece arrancava sulla difficile china dell’opposizione – sempre più irriducibile – nei confronti del cosiddetto potere costituito.
Anni del terrore ma, per certi versi, anche di passione. Perché ogni rivoluzione, per violenta che sia, è spesso pure avvolta da un’aura romantica che ne stempera, in qualche modo, la crudezza. Vivendo all’ombra della più mitteleuropea di queste rivoluzioni, Kundera ha tratto dall’arte della sua scrittura quanto gli è bastato per opporsi, come meglio poteva, all’istituzione che ne aveva decretato l’insorgere. Da questo humus tutto nostrano, si deve dire, nascono la vicenda e i personaggi del romanzo-saggio che gli diede fama e ricchezza anche se, probabilmente, non la felicità. Perché “L’insostenibile leggerezza dell’essere” – come già dal titolo si può facilmente sospettare – costituisce già di per sé una dichiarazione di sconfitta dell’uomo rispetto all’eterna sfida dell’esistenza.
Ma nel libro di Kundera, tra i più venduti di sempre, c’è anche dell’altro. Come, più e meglio di tutto il resto, l’ironia. Un’ironia sfaccettata, che attraversa scenari e sequenze temporali della narrazione affermandosi come unica e vera protagonista del racconto. E che, nel j’accuse pronunciato nei confronti dei totalitarismi politici, non esclude una fiera e convinta opposizione verso ogni altra forma di assolutismo sociale e intellettuale. Il tema dell’amore – e dell’assurdità connessa a qualsiasi sentimento pretenda di prevalere sull’inevitabile scorrere del tempo – scorre di pari passo con lo scherno, a tratti irrefrenabile, verso tutti i cliché che trafiggono il pensiero moderno.
In questo, Kundera si rivela straordinariamente attuale, con buona pace di quegli stessi che, assumendolo come simbolo della nuova cultura della sinistra, hanno finito poi, dinanzi all’illusione del potere, per tradire la sua visione che rimane, sempre e comunque, di sfiducia verso ogni facile certezza. “La stupidità” è difatti uno dei suoi assunti più noti “deriva dall’avere sempre una risposta, la saggezza dall’avere sempre una domanda”.
Autore di pubblicazioni per le più prestigiose case editrici italiane e francesi – Adelphi e Gallimard – pur più volte in nomination, non ha mai conseguito il premio Nobel, peculiarità, questa, che condivide con nomi del calibro di Jorge Luis Borges e Philip Roth. Demerito o privilegio?
Ai posteri.