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di Marinella Ruggeri
Chi si trova da solovive una condizione di solitudine, che può essere momentanea e passeggera o, al contrario, prolungata nel tempo. Dal momento che la solitudine è una condizione tipica degli esseri umani, non sempre risulta essere un male. Può tuttavia diventare una fonte di sofferenza quando si viene esclusi o quando, volontariamente, ci si allontana dagli altri.
La solitudine è in aumento, ed è uno stato d’animo che certamente riguarda l’essere cittadino globale, nonostante l’ormai costante connessione a internet. Recenti studi sostengono che la solitudine sia una condizione sempre più diffusa, specie in Italia, dove ci sentiamo più soli rispetto ad altri paesi europei. I dati sono relativi al periodo precedente alla pandemia, che ha aumentato in modo esponenziale il senso di distacco dalle altre persone, oltre ad avere determinato un aumento dei disturbi del sonno.
Che si tratti di solitudine affettiva dovuta alla fine di una relazione o che si tratti di uno stato interiore nato, per esempio, nel contesto di una relazione tossica, ormai è certo che essere soli non è sempre la conseguenza diretta di scarse abilità sociali o di una personalità più introversa. Il sentirsi soli è una condizione sperimentata anche da chi ha molti amici.
La solitudine funziona come un circolo vizioso. Tutto inizia con una sensazione di distacco e altri “sintomi” tra i quali:
- la sensazione di non sentirsi compresi e capiti dagli altri;
- l’idea di essere diversi, incompatibili con il resto del mondo;
- un senso di disconnessione con conseguente ritiro sociale.
Alcuni tratti caratteriali come la timidezza, l’introversione o una tendenza a sentirsi tristi possono portare a isolarsi in modo volontario. Per chi ha difficoltà a entrare in qualsiasi tipo di relazione, la solitudine può diventare un luogo di protezione e rifugio. Purtroppo, l’isolamento rischia di peggiorare la diffidenza verso gli altri.
Il processo di isolamento può essere determinato da vari fattori. Alcune persone possono isolarsi a causa di traumi passati, rifiuti o abbandoni subìti, e sviluppano una difesa, del tutto ingiustificata, contro possibili ferite future. Altre possono soffrire di disturbi d’ansia sociale o di depressione, che possono rendere difficile interagire con gli altri o intraprendere relazioni di valore.
La bassa autostima e l’insicurezza possono giocare un ruolo significativo quando ci si isola, poiché la persona può percepirsi come socialmente inaccettabile o indesiderata. In alcuni casi la solitudine può essere legata a disturbi della personalità, che influenzano il modo in cui l’individuo si avvicina alle relazioni.
La solitudine è , quindi, un’esperienza emotiva complessa e riconoscerne i sintomi può essere fondamentale per affrontarla in modo efficace.
Sul piano emotivo, la persona può ritrovarsi a vivere una profonda tristezza, un senso di vuoto o abbandono, oltre ad una crescente ansia sociale. Può sentirsi isolata e disconnessa dagli altri, percependo un senso di inadeguatezza o incomprensione. I pensieri legati alla solitudine possono essere intrusivi e negativi, sviluppandosi in credenze distorte riguardo alla propria capacità di connettersi con gli altri o pensare di essere indesiderata.
Sul piano comportamentale, chi vive la solitudine, può isolarsi ulteriormente, evitare situazioni sociali o chiudersi emotivamente, con l’obiettivo di proteggersi. Alcune persone possono cercare di coprire la solitudine con comportamenti di evasione, come l’uso eccessivo di smartphone o l’abuso di sostanze.
Data la complessità e la soggettività di questa esperienza, che porta ad una disconnessione non solo emotiva ma anche sociale, è possibile che la persona arrivi a soffrire di solitudine anche in mezzo a una folla, se non ha relazioni significative, ed è altrettanto possibile che si ritrovi a vivere un senso di alienazione, o derealizzazione.
Le radici della solitudine possono essere multifattoriali e includere:
- eventi traumatici
- lutti significativi
- difficoltà nel formare legami
- bassa autostima.
Alcuni individui possono inoltre avere una predisposizione genetica o neurobiologica a vivere una maggiore sensazione di isolamento. La solitudine può, comunque, manifestarsi in diverse fasi della vita, dalla giovinezza alla vecchiaia.
La solitudine può scatenare un ventaglio di emozioni e sensazioni sia a livello emotivo che fisico. Emotivamente, la persona può sperimentare una profonda tristezza, insieme a malinconia o ansia e disperazione, o un possibile senso di abbandono.
Questi sentimenti possono manifestarsi in un costante senso di vuoto o nella percezione distorta di sentirsi diversi o non abbastanza buoni per l’interazione con altri. Sul piano fisico, la solitudine cronica è stata associata a:
- stress aumentato
- disturbi del sonno
- tensione muscolare
- disturbi gastrointestinali.
Le persone possono anche sviluppare una ipervigilanza sociale, percependo minacce nel contesto delle interazioni sociali. Queste reazioni possono arrivare ad autoalimentarsi, poiché la sensazione di isolamento emotivo può ostacolare ulteriormente la volontà di cercare e sviluppare connessioni con gli altri.
Il ritirarsi dagli altri può in effetti generare mancanza di fiducia verso chi abbiamo intorno. Da tempo è stato confermato come le persone più sole e inclini a isolarsi percepiscano il volto degli altri come minaccioso anche nel caso di espressioni neutre.
Questa reazione è dovuta all’iperattivazione del sistema di allarme governato dall’amigdala. Solitudine e ritiro sociale sembrano dunque rafforzarsi a vicenda.
Diversi studi hanno confermato come la solitudine determini effetti negativi sull’organismo:
- una risposta immunitaria più bassa;
- un maggiore rischio cardiovascolare;
- pressione sanguigna più alta e, di conseguenza, un rischio più elevato di mortalità.
Gli esiti negativi della solitudine hanno delle spiegazioni evoluzionistiche. Gli esseri umani sono sopravvissuti finora per mezzo della cooperazione nei gruppi. Lo stare insieme permetteva di proteggersi con maggioreefficacia dalle intemperie, di collaborare per la costruzione di rifugi, per la caccia, per procacciare cibo e crescere la prole.
La socialità è talmente importante per gli esseri umani, che l’isolamento dalla società e l’esclusione dalle relazioni stimolano i centri cerebrali del dolore fisico, soprattutto per la porzione del cervello chiamata insula, importante per l’emotività, le funzioni cognitive e l’esperienza interpersonale.
Nella solitudine viene percepita la mancanza di un “altro da sé”. Esiste dunque un bisogno di “essere pensati” da un’altra persona, a conferma della nostra esistenza. Le relazioni proteggono la nostra salute. Laddove prolungare una condizione di isolamento può compromettere il benessere psichico fino a determinare una condizione depressiva.
Affrontare la solitudine in modo sano ed efficace richiede una combinazione di autoconsapevolezza, strategie di gestione e sforzi, con il fine di costruire connessioni significative. Il primo passo, sempre, sta nel riconoscimento e nella accettazione dei sentimenti di solitudine senza giudizio.
Una simile condizione, può diventare invalidante e ingestibile.
Pertanto può essere utile rivolgersi ad uno psicoterapeuta affinchè la persona abbia uno spazio sicuro per l’esplorazione di sé, propedeutica allo sviluppo di strategie di gestione.
Allo stesso tempo, può essere utile prendersi cura di sé stessi attraverso la pratica di attività gratificanti che possono stimolare il proprio benessere emotivo. Non va esclusa la possibilità di partecipare anche in compagnia, con persone che hanno interessi simili, nello svolgimento delle attività che danno piacere.
Stabilire legami con gli altri è il rimedio alla solitudine. I legami fondamentali di attaccamento nascono e crescono in famiglia. Ma nel corso del tempo le relazioni familiari tendono all’eccessiva complessità, diventano tese o più povere. Un clima familiare molto negativo può far nascere solitudine e incomprensione, fino a determinare un’attitudine solitaria.
Le amicizie diventano importanti per rimediare alla solitudine: gli amici sono una famiglia che è possibile scegliere. Le relazioni amicali nutrono e arricchiscono durante l’intero ciclo di vita. È ormai dimostrato che, invecchiando, chi conta sulla famiglia e anche sulle amicizie, ha una salute migliore. E vivere bene e più a lungo è un’arte che può essere imparata.
L’effetto positivo del supporto familiare tende a rimanere pressoché identico nel corso del tempo, mentre il supporto e la presenza di amici è sempre più importante con l’avanzare dell’età.
È fondamentale essere in grado di coltivare le amicizie, quelle di lungo corso, come i nuovi rapporti. Bisogna essere in grado di buttarsi, sempre, scalzando il timore del rifiuto e altri schemi che condizionano la vita. E ci si può buttare tenendo conto del “principio del setaccio”, secondo il quale, le amicizie si auto-selezionano, come quando si utilizza un setaccio e sulla superficie rimane solo ciò che ha una consistenza maggiore.
In conclusione, dal momento che le relazioni implicano sempre un certo impegno, è necessario essere capaci di uscire dalla propria comfort zone.
E’ quindi più evidente che il contrario di solitudine non è compagnia. Ci si può sentire soli anche stando fra tanta gente – ma senza senso di intimità e vicinanza.
Sul pianeta gli uomini sono sopravvissuti, senza ombra di dubbio, in quanto creature sociali.
Socialità ha sempre voluto dire sopravvivenza.
Al senso di sicurezza si aggiunse anche la sensazione di piacere che deriva dallo scambio con l’altro. Gli elementi che, da sempre, contribuiscono maggiormente al raggiungimento della felicità riguardano dimensioni non solitarie: l’amore, l’intimità, il senso di appartenenza a qualcosa.
Vi sono studi che dimostrano come proprio questi siano un fattori protettivi dall’ideazione suicidaria.
Chi è sensibile all’esclusione sociale può essere socialmente appagato e chi ha scarso bisogno di rapporti può essere solo, non è questo il problema. Il dolore si attiva quando vi è una divergenza tra la connessione sociale desiderata e il livello di contatti fornito dall’ambiente.
Ai nostri tempi, la sensazione diffusa è che il senso di solitudine sta aumentando vertiginosamente , proprio nelle nostre società degli ultimi anni.
I fattori che possono avere influito sono: lo sviluppo di un’urbanistica priva di spazi aggregativi e di condivisione sociale; la rapida introduzione di strumenti di comunicazione che ci hanno trovati impreparati ad una riflessione sul loro uso e a scongiurare gli effetti collaterali; l’esasperazione di una cultura narcisistica.
Tutti modelli che fanno ritenere una vita degna di essere vissuta solo se si riempie di attività. Un po’ alla volta, senza accorgersene e non immaginando i rischi, le società hanno fatto regredire la necessità di socialità da un bisogno vitale a un fattore accessorio.
La solitudine fa tanto male, genera dolore e non è solo una metafora.
Gli studi di neuroimaging hanno osservato che quando avvertiamo il dolore della solitudine si attiva un’area emotiva, denominata regione del cingolo anteriore dorsale, che è la medesima che registra le risposte emotive al dolore fisico.
Il sentimento di solitudine e il dolore fisico condividono molti circuiti neuronali. Funzionano peggio anche le aree cerebrali deputate al senso di gratificazione e ricompensa.
Per fare un esempio, normalmente quando osserviamo un volto felice si attivano alcune regioni cerebrali che generano piacere. Nei soggetti che soffrono di solitudine questo tipo di risposta è indebolita. Il cervello reagisce in maniera più marcata agli eventi negativi e genera minor soddisfazione per ciò che di positivo accade.
Il dolore fisico ci spinge a un cambiamento di condotta – ad esempio allontanare la mano da un oggetto acuminato – la solitudine percepita ci stimola a cercare la vicinanza.
Sentimenti di solitudine occasionali non lasciano segni negativi particolari, sono fisiologici e aiutano lo sviluppo della persona.
Superato però un certo limite non consentono più alcun livello di crescita; ad aumentare saranno solo i livelli di stress e gli effetti negativi di questo.
Non riuscire a incontrare i propri simili determina una profonda ferita che intacca l’organismo dal punto di vista fisiologico.
Gli ormoni dello stress compromettono la funzione immunitaria e cardiovascolare a cui si aggiungono condotte che trascurano sempre più uno stile di vita sano.
Progressivamente si alterano sempre più le capacità di auto-regolazione. Riuscire a focalizzare l’attenzione sugli aspetti utili al raggiungimento dei nostri scopi, escludendo dalla mente quelli irrilevanti o controproducenti, è un’abilità indispensabile in tutti i campi. Viene compromessa anche la cognizione sociale con la perdita della corretta decodifica dell’altro, del suo punto di vista, delle sue intenzioni e dei i segnali espressivi del corpo.
La solitudine non necessariamente si allinea con la depressione. La prima ci spine a cercare l’altro, la seconda invece a chiuderci in noi stessi.
Ciò che condivide la solitudine con gli stati depressivi è lo stile di coping passivo: nonostante il dolore avvertito vi è la tendenza a fare sempre meno e a non strutturare risposte efficaci.
Non è difficile comprendere come tentare più volte di raggiungere un obiettivo e non riuscirci porti a tirare i remi in barca; ci siamo passati un po’ tutti almeno una volta nella vita. Si affievolisce l’impegno attivo in prima persona e la ricerca di supporto emotivo e pratico dagli altri. E’ proprio questa tendenza spontanea, questa trappola, che dobbiamo contrastare.
Una delle prime nozioni che si apprendono nelle scuole di specializzazione cognitivo comportamentale è che la maggior parte dei meccanismi mentali si apprendono.
A nostra insaputa impariamo un po’ alla volta a costruire relazioni valide o a ritirarci socialmente. Nel fornire, o fornirsi, aiuto dobbiamo avere come obiettivo il cambiamento dei nostri schemi di pensiero e dei comportamenti.
Non serve a nulla continuare a ripeterci che ci sentiamo soli: se la solitudine è sete di rapporti sociali non la soddisfiamo concentrandoci sempre più sul senso di sete che proviamo.
Dobbiamo imparare a intercettare le sensazioni di minaccia che si attivano quando incontriamo qualcuno o immaginiamo di farlo e provare a gestirle un po’ alla volta fino a disattivarle.
Esporsi gradualmente a queste sensazioni spiacevoli – non evitandole – aiuta a fare piccoli passi avanti: è un dato certo, bisogna solo provarci.
Iniziamo così a cogliere nuove esperienze sull’ interazione con l’altro e a costruire un senso di curiosità per come noi mandiamo i messaggi, evitando di anticipare la scena in modo stereotipato.
Non concentriamoci su come l’altro guarda noi, mettiamo invece a fuoco il modo in cui noi guardiamo l’altro. Impariamo a considerare l’altro come un essere umano che può trovarsi in una situazione analoga alla nostra.
Proviamo a contenere la tendenza ad attribuire all’altro stati mentali di cui in realtà non sappiamo nulla o per lo meno non è detto che siano gli stessi che noi immaginiamo. Accettare che l’altro possa avere credenze, intenzioni, emozioni e conoscenze diverse dalle nostre è alla base di una buona Teoria della Mente, non significa che non ci siano allora presupposti di interazione.
L’aspettativa più realistica sarebbe iniziare a nutrire i rapporti che abbiamo, anche quelli apparentemente poco significativi. Provare a inviare dovunque ci troviamo piccoli segnali pro sociali come un sorriso, uno sguardo, un qualunque cenno che possa far capire all’altro, che ci siamo connessi con lui.
Si capisce facilmente, perché la canzone di Geolier, I p’ me, tu p’ te, sia stata così tanto apprezzata e votata all’ultimo festival di Sanremo.
Anche se analizzando con attenzione il testo, si stratta di una storia che racconta di due sconosciuti che si incontrano, che desiderano la notte solo per loro, che sono tante le cose che hanno perso, e che anche la luna se si desidera, si è disposti a prenderla per donarla. Quindi il dono resta il vero protagonista, sempre e comunque!!!