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Questioni di lingua: quarantreesimo appuntamento

Questioni di lingua: quarantreesimo appuntamento

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di Carmelo Micalizzi

Gli Xìphia e le parole segrete

(Così ei par che sappiano discernere la lingua Greca dall’Italiana)

Un luogo “diverso” è luogo di miti. Tale è il braccio di mare dei Dardanelli che prelude alla Colchide oppure quello di Gibilterra segnato da Eracle con le sue colonne; così l’Istmo di Corinto legato a Pegaso e a Bellerofonte e cosi anche lo Stretto di Messina con Cariddi e il suo sicomoro.

Quest’ultimo luogo “diverso”, fucina di cento miti, è lo spazio del perenne transito migratorio dello Xiphia Glaudius, il pescespada, che in primavera sfiora a tramontana la costa calabra e, nel primo scorcio dell’estate, a meridione, quelle siciliane.   

I pesci galeoti, armati di spade, narra il mito che altri non siano che i Mirmìdoni, i guerrieri di Achille. Quando Paride uccide Achille, l’esercito dei Mirmìdoni si scaglia contro i Troiani che però rifiutano la mischia ripiegando dentro le mura. Folli di rabbia le amate schiere di Achille si lanciano con le spade sguainate in mare e Teti, madre pietosa, li muta nei bizzarri pesci armati di gladio.

Ancora in pieno XIX secolo, tra Bagnara, Palmi, la rocca di  Scilla e il litorale tra Faro e Pace, i pescatori a bordo di feluche e luntri, si rivolgevano allo “spada” con toni forti e accorati e con frasi ripetute senza pause, tante e tante volte, urlate ossessive, d’un fiato, la cui comprensione letterale era oramai tanto impossibile quanto, per paradosso, il loro senso era in passato chiaro: i  comandi gergali rivolti dall’avvistatore ai rematori usati nella pesca del pescespada; una pratica propiziatoria tra il fascinoso cantare e l’inveire in antico greco vista sia in termini funzionali che rituali.

Comprendere oggi quella terminologia, anche se velata dalla polvere dei secoli che l’ha resa nebbiosa e tanto distante dalla realtà etnografica e dal mondo delle credenze che le motivarono, è emozionante. Si tratta di una sorta di frasario dei nostri antenati che trasmette echi di riti e di miti remoti, reliquie di esperienze e credenze lontane1

Le parole, nella versione di Antonino Mongitore2, sono le seguenti:

MAMASSU DI PAJANU // PALETTA DI PAJANU // MAJASSU DI STIGNELA

PALETTU DI PAENU PALE’ // PALE’ LA STAGNETA // MANCATA STIGNETA // PRO NASTU VARDU PRESSU DA VISU E DA TERRA.

Le parole dalle radici greche erano, nelle concitate fasi dell’inseguimento allo “spada”, rivolte ai rematori e al lanzatore. Se ne segnalano due esempi negli scritti di Tommaso Fazello e di Andrea Cirino. 

Il primo è la citazione del Fazello riferita all’allerta, dato da alcune feluche che remando veloci lungo le marine di capo Peloro e del reggino, annunciavano a gran voce l’ingresso dei branchi di pescespada nelle acque dello Stretto3:

Volendo i pescatori pigliare questi pesci, fanno stare un huomo in su la cima dell’albero della barca, il quale in lingua Greca chiama con alta voce i pescatori che stanno in molte case quivi d’intorno, avvertendoli che menino le loro barchette verso i luoghi dove sono i pesci.

Il secondo è la testimonianza del Cirino4 riguardo ai pescatori e ai curiosi che si accostavano con le barche per l’agio di osservare più da vicino le fasi più concitate della pesca; questi venivano aspramente richiamati a starsene lontani soprattutto per non spaventare i pesci e non essere d’impaccio alle manovre del luntro impegnato nell’inseguimento.    

Il riferimento più antico alle “frasi segrete”, riconducibile all’ultimo scorcio del XV secolo, è di Paolo Giovio5 che nel 1524 pubblica una memoria annotata dall’umanista Cattaneo:  

Giovanni Maria Cattaneo, novarese, che assistette nel lido di Locria una pesca di pescespada, riferì che quelli sono di così grande facilità di indole, che sembrano distinguere la lingua greca, della quale si fa uso in quel territorio della Magna Grecia, dall’italica, e scoprì, con prove che destano stupore, ciò: che temono i suoni greci in misura minima, laddove fuggono improvvisamente di fronte all’accento italico, cosa che diversi Bruzi hanno testimoniato.   

Una successiva notizia è raccolta nel 1573 da Tommaso Fazello6:

Pigliansi, nel medesimo mare di Messina anche i Sifii, mentre ch’essi danno la caccia ai tonni e ritrovandomi io alla pescagione di questi pesci, non ho potuto far di non mi maravigliar grandemente d’una certa loro particolar proprietà di natura, la quale fu avvertita anche da Aristotele in certi altri animali. Volendo i pescatori pigliare questi pesci, fanno stare un huomo in su la cima dell’albero della barca, il quale in lingua Greca chiama con alta voce i pescatori che stanno in molte case quivi d’intorno, avvertendoli che menino le loro barchette verso i luoghi dove sono i pesci; così i Sifii allettati dalla lingua e dalla favella Greca, e fatti come dir sicuri, s’avvicinano alla barca e, quasi al guado, i pescatori con la fiocina ò con altra si fatta forte d’arme, gl’infilzano e gli prendono. Ma s’egli avviene, per sorte, che colui che sta in cima dell’albero, o qualcun altro pescatore, parli in lingua italiana e sia udito da questi pesci, subito si fuggono, non altamente che se quella voce significasse loro la morte, Così ei par che sappino discernere la lingua Greca dall’Italiana.   

L’esperienza della pesca del pescespada, tra “canto” e accorate esclamazioni è documentato da Vincenzo Giustiniani. L’esimio prelato romano, nel suo scritto Discorso sopra la musica dei suoi tempi (Roma, 1628), leggibile in una raccolta di fonti curata da Angelo Solerti, L’origine del Melodramma stampata a Torino nel 1903 dall’editore Giuseppe Bocca7 traccia una breve storia della musica dei suoi tempi. Incuriosisce come il Giustiniani, a giustificazione di alcune sue teorie relative alla natura della musica, si soffermi su due tradizioni popolari che, essendo peraltro mantenute fino a oggi, sono state oggetto di riflessione anche di etnomusicologi: il fenomeno dei “tarantolati” e il “canto” greco al pescespada. A proposito di quest’ultimo il Giustiniani annota:

Resterai da investigare la cagione perché nella pesca del pescespada, che si può più presto dire caccia, sia reputato il canto necessario e, quel ch’è più, con esprimere parole greche.       

Ci sono quindi due memorie. La prima pubblicata nel 1650 da Atanasio Kirker che, nel 1638, partrecipò ad una battuta di caccia al pesce spada8 e, una seconda, quella del 1658 del gesuita Placido Reina9:

Credono alcuni che il pescespada oda il favellar de gli uomini e gli piaccia il linguaggio Greco, onde si ferma ad udirlo e che per questo cacciandolo i pescatori della nostra riviera si valgano solamente dell’idioma Greco.

[…] Tutto ciò presso gli uomini di buon senno ha del favoloso, perchè i pesci non hanno il senso dell’udito e conseguentemente non odono le voci umane né verun’altro suono. E quando Aristotele disse che i pesci, ancorché non abbiano parte alcuna che vaglia per sumministrar loro l’udito nulladimeno odono gli strepiti e’ rumori de’ pescatori, volle insegnarci che i pesci sentono i commovimenti fatti nell’acque che si comunicano dalle parti di sopra a quelli di sotto, e però si mettono in fuga, altramente nelle sue parole medesime vi sarebbe manifesta contraddizione. Quindi è, che i pescatori consapevoli di ciò si guardano di far qualunque agitamento nell’onde, qual’ora sono intenti alla pescagione d’alcune spezie di pesci.

[…] Plinio vide anch’egli che i pesci non hanno strumenti da udire, e pur volle, seguendo la favolosa opinione de i poeti, che odano, anzi, che alcuni chiamati col proprio lor nome vadano. E aggiunge, fra le altre piacevolezze, che i delfini vogliono essere chiamati Simoni e che si dilettano della musica e del suono.

Ma come è inverisimile che un’animale vegga senz’occhi, così dobbiamo certamente credere che non si possa udire senza gli strumenti dell’udito e che per questo i pesci non odano e l’operazioni loro che i semplici attribuiscono all’udito, provengono dal senso del tatto, movendosi l’acque o pure essere può che, alle volte, derivino dal vedere.

Or che diremo a quelli che vogliono sapere la cagione perché i pescatori oggidì in cacciando il pescespada usano più tosto la favella Greca che l’Italiana? Chi sarà consapevole dell’antichissima usanza introdotta insino nel tempo che i Greci abitavano la Sicilia, di far presa di questi pesci quasi nella maniera medesima, come si fa oggigiorno, facilmente potrà restar persuaso che le parole delle quali corrottamente si vagliano i nostri pescatori siano state per successione tramandate da quei primi inventori. Le principali che profferiscono a questi tempi e sopra le quali vanno multiplicando l’altre più tosto per vaghezza della caccia che per necessità sono queste. Manosso, che appresso loro significa va fuori; Stinghela, che vuol dire viene in terra; Manano, che dinota a man destra; e Mancato, a man sinistra. Ne perché mescolano con questi vocaboli altre parole or Greche ed or’Italiane, si vede differenza alcuna da’curiosi a prendersi o non prendersi il pesce.

Una testimonianza recente è dovuta a monsignore Francesco Alizio; vi si evince come l’idioma greco sia stato sostituito da termini in vernacolo siciliano di identico significato10:

Su di una grossa barca, denominata feluca, s’innalza una antenna di metri ventidue su cui legato, legato ai fianchi, sta un marinaio abbronzato dal sole. Egli aguzza lo sguardo e scuta attorno le placide acque di smeraldo. Accanto a questa barca sta in agguato una snella e leggera barchetta, detta untro, montata da cinque marinai e da un abile e preciso lanciatore. Il marinaio che sta di

guardia in sull’antenna avvista il pescespada, il quale, come canta il Mascheroni nel suo invito a Lesbia Cetonia, mostra ad ora ad or guizzando il curvo dorso, e con voce argentina e sonora avvisa i marinai della sottostante barchetta di scorta e delinea e designa e precisa il cammino del pesce. Questi rudi geografi hanno un loro sistema di quattro punti cardinali e loro intermedi; dimodochè, se il pesce va verso Torre di Faro, l’avvistatore grida: Va susu. Se invece il pesce nuota verso Messina, grida: Va jusu. Se nuota verso Calabria: Va fora. Se poi verso la riva di Sicilia: Va nterra. Quando il pescespada prende una direzione intermedia di questi quattro punti, allora l’antenniere grida: va susu-fora; va susu-nterra; va jusu-fora; va jusu-nterra.    

Altri significativi rimandi, nella vasta antologia sull’argomento, sono quelli che emergono dagli studi di Giorgio Piccitto (1965)11 e di Rocco Sisci (2005)12.

In appendice, una attenta lettura della fraseologia – quella proposta da Antonino Mongitore – permette di comprendere gli etimi greci13:

MAMASSU: (Manassu in P. Reina), mene èxo, resta fuori.

PAJANU: Epano, sopra.

MAJASSU: (vedi Manassu).

STIGNELA: (Stinghèla in P. Reina), stin ghè ela, verso terra vieni.

PALETTU: (vedi bovese ettù/eutù) palin ekì, di nuovo lì.

PAENU: (vedi Pajanu), sopra.  

PALE’: Pali, di nuovo.

STAGNETA: Stin ghè ekì (eta/etu/ettu), bovese ettù/eutù ‘lì, costì’), di nuovo lì.

MANCATA: Mene kato, resta sotto.

STIGNETA: (vedi Stagneta).

PRO NASTU VARDU: –tu e –du, è ricondotto da qualche linguista al genitivo –tu (si veda il bovese autòs/autù), ma, come PRESSU DA VISU E DA TERRA, è perifrasi corrotta dall’utilizzo di parole in vernacolo calabrese e siciliano.

Carmelo Micalizzi

NOTE

1 G. L. BECCARIA, I nomi del mondo, Torino 1995, pp. 4-5

2 A. MONGITORE, Della Sicilia ricercata nelle cose più memorabili, Palermo 1742, pp 168-169

3 T. FAZELLO, Le due deche Dell’Historia di Sicilia, Venezia 1573, pp. 30-31

4 A. CIRINO, De Venatione Heroum libri duo, in Apparatus Venationum ac praeludia lib. I, Messina 1650

5 P. GIOVIO, De Romanis Piscibus libellus, Roma 1524, lib. I, cap. IV 

6 T. FAZELLO, Le due deche Dell’Historia di Sicilia, dec. I, lib. I, cap. IV, Venezia 1573, pp. 30-31

7 Ripubblicato di recente in G. Gialuy, New York 1969 e da A. Forni, Bologna 1969

8 A. KIRKER, Musurgia Universalis sive Ars magna consoni et dissoni in Digressione de Captura piscis Xiphia, lib. IX cap. VII, Roma 1650, pp. 227-228

9 P. REINA, Delle Notizie Istoriche della Città di Messina, Brea, Messina 1658, pp. 54-58

10 F. ALIZIO, Un paese distrutto, Messina 1933, pp. 218-219

11G. PICCITTO, Le formule greche usate un tempo nella pesca del pescespada nello Stretto di Messina, in «Bollettino del Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani», vol. IX, Palermo 1965

12 R. SISCI, La caccia al pescespada nello Stretto di Messina, Messina 2005, pp. 117-130

13 C. MICALIZZI, Gli Xìphia e le parole segrete. (Così ei par che sappiano discernere la lingua Greca dall’Italiana) in Piscispada. Sulla cultura del pescespada nello Stretto di Messina, Gioiosa Marea 2013, pp. 71-78