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di Giuseppe Ruggeri
Da sempre le pandemie fanno parte della memoria collettiva, improntandola e significandola al pari delle altre grandi catastrofi – naturali e antropiche – che affliggono l’umanità. La loro conoscenza si rivela pertanto indispensabile per comprendere la natura dell’uomo, il suo modo di reagire e contrapporsi alle calamità, nel puntuale reiterarsi di alcuni comportamenti spesso non in linea con il grado di progresso civile e scientifico raggiunto.
Alcuni di questi comportamenti – paura che si spinge fino al panico, negazionismo, complottismo, forzato isolamento, diffidenza e sospetto etc. – non mutano di fronte alle epidemie, così come non cambia lo studio di rimedi, molte volte anche miracolistici, da contrapporre all’imperversare del contagio. Come nel passato, dunque, ci si affidava al mito o alla religione celebrando riti propiziatori tesi a scongiurare la diffusione del male, ugualmente oggi ci si affida alla tecnologia e alla scienza per combattere le infezioni. Estremizzandosi, ieri come oggi, le opposte tendenze fino a giungere a gradi elevati di conflitto sociale e all’assunzione di vere e proprie posizioni ideologiche che sfiorano l’irrazionalità perdendosi di vista quel salutare buon senso che dovrebbe invece nutrire la ricerca delle soluzioni al problema. Un esempio calzante, a riguardo, lo offre il controverso atteggiamento assunto riguardo alla vaccinoprofilassi, odiernamente manipolato da oscuri professionisti della politica – e dell’informazione – per il raggiungimento di fini particolari di consenso e audience. Dimenticando – o fingendo di dimenticare – l’indubitabile apporto che i vaccini hanno fornito all’umanità prevenendo e in certi casi pure eradicando infezioni temibili come il vaiolo e la poliomielite grazie alla loro massiva adozione in tutto il mondo.
Durante una fase storica iniziale, dal punto di vista semantico il termine “pandemia” coincide con quello di “pestilenza”. Fin dall’antichità, infatti, come dimostrano gli esami necroscopici condotti su alcune mummie egiziane, la peste ha seminato morte sul pianeta. Per il suo forte impatto sociale, la peste d’Egitto ebbe risonanza anche nella tradizione narrativa sacra, come dimostrano i versetti dell’Esodo biblico e della Sura coranica che narrano delle dieci piaghe d’Egitto inflitte da Dio agli Egizi per aver ridotto in schiavitù gli Ebrei. Tra queste piaghe, appunto, c’è la pestilenza.
Dobbiamo aspettare qualche secolo per incontrare di nuovo una grande pestilenza. Il famoso storico Tucidide, nella sua monumentale opera “Guerra del Peloponneso”, rende una descrizione straordinariamente realistica e dettagliata dell’epidemia di peste scoppiata ad Atene nel V secolo a.C. La malattia sbarcò nella capitale attica all’improvviso, contaminando in un primo momento gli abitanti del Pireo – cioè della zona portuale – i quali accusarono i Peloponnesiaci d’aver gettato veleno nei pozzi. Le sue vittime, tra gli altri lo stesso Pericle che ne fu ucciso insieme a tutta la famiglia, erano subitaneamente assalito da violente vampate alla testa, rossore e gonfiore agli occhi. Tosse e disturbi addominali seguivano subito dopo, e poi, infine, il corpo si ricopriva di pustole e ulcere. I medici, che brancolavano nel buio, obbligarono la cittadinanza a chiudersi in casa per evitare il contagio, con il risultato che interi nuclei familiari furono decimati, perché finirono per trasmetterselo gli uni con gli altri.
Si deve arrivare al Medioevo, e precisamente al 1348, perché la peste faccia di nuovo capolino dai meandri della storia, trasportata dai ratti di cui pullulavano le stive delle navi che, per motivi commerciali o bellici, transitavano nei porti europei. Della terribile epidemia di peste scoppiata a Firenze nel Trecento, che mietè vittime a migliaia, scrive Giovanni Boccaccio nel suo “Decamerone” – quelle dieci novelle, cioè, che una compagnia di amici, forzata alla reclusione appunto dall’imperversare del contagio, si racconta per ingannare il tempo. La peste, pur facendo solo cornice alla narrazione del Boccaccio, aleggia tuttavia in ogni capitolo del “Decamerone”. Si trattò della forma bubbonica, caratterizzata da linfoadenomegalia diffusa accompagnata da dolore e febbre elevata.
Nel 1630, la peste colpisce il ducato di Milano portata dalle bande mercenarie alemanne diffondendosi rapidamente in tutta la penisola. Sotto l’infuriare della pestilenza, si diffondono le caccie agli untori che degenerano spesso in veri e propri processi a carico di presunti diffusori del contagio, in realtà innocenti, che subiscono il supplizio della ruota. A queste vittime dell’ignoranza e della superstizione popolare Alessandro Manzoni, dedicò la sua “Storia della Colonna Infame”.
A quasi centomila morti ammonta il bilancio della grande peste di Londra che si diffuse tra il 1665 e il 1666. L’infezione giunse in città con le navi cariche di cotone provenienti dai Paesi Bassi, in particolare da Amsterdam, insediandosi inizialmente nelle aree periferiche, che versavano in precarie condizioni igieniche, e solo in seguito spostandosi verso il centro urbano. Nella fase esplosiva del morbo, sopravvenuta nei mesi caldi, la città si svuotò perché il grosso della popolazione si trasferì nelle campagne adiacenti per sfuggire al contagio. Daniel Defoe, il celebre autore di Robinson Crusoe, descrive una pestilenza che “non si diffondeva tanto per via dei malati quanto per via dei sani, o meglio delle persone apparentemente sane (…) queste persone recavano morte ovunque con il loro respiro, e la davano a ogni persona che incontravano, la lasciavano in agguato, per il sudore delle mani, su ogni oggetto che toccavano (…) questo dimostra come in tempi di peste non ci si possa affidare alle apparenze”.
E giungiamo al XX secolo. Quello delle grandi pandemie influenzali che, a intervalli variabili, si son succedute nel mondo. Di origine virale sono la Spagnola H1N1 (1918) l’Asiatica H2N2 (1957) e la Hong Kong H3N2 (1968).
Di tutte, la più severa senza dubbio la prima, generata da un virus particolarmente virulento che, nel corso di tre ondate, contagiò circa 500 milioni di persone uccidendone 50 milioni. Un elevato tasso di letalità, dunque, che trova giustificazione nelle precarie condizioni igieniche dell’epoca, funestata per di più da un rovinoso conflitto bellico mondiale che aveva messo in ginocchio l’economia di numerose nazioni. Interessò particolarmente giovani adulti, probabilmente perché innescava una reazione eccessiva del sistema immunitario con iperproduzione di citochine, similmente a quanto avvenuto negli anni 2020-2022 durante la pandemia da SARS-Cov2. L’alta mortalità della virosi da Spagnola fu comunque essenzialmente da correlarsi all’alta incidenza di complicanze polmonitiche al tempo non curabili perché ancora in epoca preantibiotica. Gli otto segmenti genetici del virus sarebbero derivati da un virus aviario che, compiendo un salto di specie, si sarebbe adattato all’uomo acquisendo peraltro un’eccezionale capacità di trasmettersi da un individuo all’altro.
Il virus dell’Asiatica (1957) era già stato isolato nel 1933 nell’uomo dopo il riconoscimento di un’importante epidemia che aveva coinvolto 250.000 persone provenienti da Hong Kong. Interessò per la gran parte individui giovani, mentre i soggetti ultrasettantenni furono risparmiati, probabilmente a causa della memoria immunitaria conseguita nel corso della Spagnola quasi quarant’anni prima. A debellare la malattia fu la scoperta e messa in produzione di un vaccino che in pochi anni fermò la pandemia.
Il virus dell’influenza di Hong Kong (1968), anch’essa di origine aviaria, ebbe una letalità lievemente inferiore rispetto all’Asiatica (intorno ai due milioni di persone in tutto il mondo).
Questa breve carrellata, che non ha tenuto ovviamente conto di molti e più specifici aspetti tecnici connessi al fenomeno delle pandemie, evidenzia come la specie umana non si sia mai liberata dall’ingombrante e spesso letale convivenza con i microrganismi che, a miliardi, affollano la biosfera, ciascuno reclamando il proprio posto al mondo. Rendere questa convivenza il meno possibile dannosa è il difficile compito assegnato a una modernità che da sempre, malgrado le ondate pandemiche succedutesi nella storia, matura puntualmente la convinzione d’aver definitivamente sconfitto le malattie infettive. Come dimostra, peraltro, il progressivo smantellamento d’interi reparti ospedalieri dedicati, per di più in assenza di un’efficace medicina del territorio che consentirebbe una migliore domiciliarizzazione delle cure anche attraverso l’adozione dei giusti protocolli terapeutici.