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di Carmelo Micalizzi
Il Cristo in pietà sorretto da tre angeli di Antonello da Messina è un olio su tavola di cm. 115 x 85, databile al 1475-’76, custodito presso il museo Correr di Venezia1. Incerta, se da sede ecclesiastica o da raccolta privata, è la provenienza del dipinto che fu affidato alla città veneta da Teodoro Correr2 per lascito testamentario del 1830. Il facoltoso abate e collezionista avrebbe forse acquisito la tavola, non citata purtroppo da alcuna fonte archivistica precedente, nell’ultimo scorcio del XVIII secolo, in seguito alla caduta della Repubblica di Venezia e nell’incerto clima dell’alternanza dei governi francesi ed austriaci. Si è comunque dell’avviso che, tanto la commissione quanto la destinazione dell’opera d’arte, rimandi al territorio veneto anche per l’utilizzo del legno di pioppo, più consono alle temperie delle latitudini lagunari anziché meridionali.



Ad un ritocco tardo settecentesco sarebbero legate le rifilature di tre margini3, le ridipinture e forse l’abrasione dei volti del Cristo e dei tre angeli, che potrebbero anche essere stati abbozzati ab initio e mai portati a termine4. Nel 1879, Giovan Battista Cavalcaselle attribuì il dipinto ad un seguace di Antonello il cui nome, come autore, venne per la prima volta avanzato, nel 1902, da Gustav Ludwig5 e ribadito poi, nel 1909, da Gustavo Frizzoni6. La tavola fu restaurata nel secolo scorso, dapprima nel 1939-‘40 da Mauro Pelliccioli a Milano, e poi, nel 1991-’92, dai restauratori della Conservazione dei Beni Culturali a Roma.



Antonello affrontò più volte i temi della Passione descrivendone i momenti cruciali nei canoni figurativi della coeva devozione popolare: la flagellazione, la salita al Calvario, la crocifissione, la deposizione dalla croce, il compianto. È probabile che il pittore abbia altre volte avuto modo, confrontandosi con simili soggetti di Cosmè Tura e di Giovanni Bellini, di svolgere il tema della Pietà, ma sono solo due i dipinti che ci sono pervenuti con tale tema: la tavola del museo Correr e quella del museo del Prado. Dare realismo e vitalità alla scena della Pietà, allorché la si è rappresentata più volte, non sarà stata impresa semplice, ma Antonello la risolse tuttavia in invenzioni pittoriche che riuscirono a declinare la definizione dello spazio di scuola italiana con la cura dei particolari di scuola fiamminga.
Il migliore confronto con la Pietà veneziana è ovviamente quello con l’analogo dipinto del museo madrileno eseguito dal pittore nello stesso periodo. In ambedue le tavole emerge suggestivo il paesaggio stagliato contro un cielo primaverile segnato all’orizzonte dalla cornice terra mare e dalla cinta muraria di Messina con l’ordine delle merlature normanno sveve che si riflettono in un torrentello. I giardini d’alberi e ì prati sono punteggiati di sassi, ossa, teschi, arbusti e verbaschi e segnati, a destra, da sparsi cespugli e da due tronchi secchi, bruciati, forse schiantati da un fulmine. La città, scena tanto reale quanto ideale, come in altri dipinti di Antonello, è segnata da alcune basilari architetture cittadine: nel dipinto madrileno appare Santa Maria la Nova, la cattedrale con il campanile, mentre quello veneziano mostra le absidi del tempio di San Francesco d’Assisi, il primo dell’Ordine francescano in Sicilia, sul torrente “della Buzzetta” nei pressi dei Sicofanti7, la contrada dove c’era la bottega e la casa “solarata” di Antonello.
La prospettiva nella scena è dominata dalla figura del Cristo con la luminosità del torace, del ventre e delle gambe tornite che rimandano al San Sebastiano di Dresda, forse l’ultima opera di Antonello. Il corpo inerme che segna il dipinto8 sulla traccia di una diagonale da sinistra in alto a destra in basso, contestuale alla sorgente della luce, si armonizza con il movimento rotatorio9 dei tre angeli fanciulli che si guardano attoniti, piangono in silenzio e pietosamente si adoperano a reggerlo dalle spalle e dalle braccia.
Il corpo di Cristo è mondato dal sangue, dal sudore e dalla polvere della Passione, già terso dalla mistura di aloe e mirra di Nicodemo. La piaga del costato e lo squarcio della mano destra sembrano adesso ridursi a più modeste ferite mentre l’avambraccio e il dorso della mano sono segnati dal prodigioso turgore delle vene che, anziché collassate appaiono come animate da una vis a tergo (come spiegarlo altrimenti), da un cuore pulsante che è segno di vita latente e della imminente Resurrezione.
A margine, nella penombra del sacello in basso a destra del dipinto, si scorge un’immagine a somiglianza di un teschio che rammenta quello della Pietà del Prado, ma, mentre nella tavola di Madrid è raffigurato un cranio definito, ambrato dal tempo con le suture anatomiche e il profilo delle ossa brunite, la figura del dipinto veneziano appare come una semplice maschera bianca; una raffigurazione che, nello scorcio ombroso del sepolcro, rammenta la baùta10, la più antica e più nota maschera del carnevale veneziano, conosciuta anche come “larva”, con la forbitezza della fronte, le orbite vuote, l’accenno dello zigomo, il nitore del naso, la bocca schiusa e il mento, con l’inquietante aspetto, per la fissità dei tratti e la lividezza, di maschera di velato candore e di teschio. La “larva”, come il teschio, è – memento mori – ammonimento sulla caducità della vita e la sua inespressività mostra lo scorrere del tempo e il disfacimento della carne.

Il teschio è peculiare nella iconografia della Passione, in particolare della Crocifissione. La scena è il Calvario – dal latino Calvarius locus – altura presso Gerusalemme indicata anche con la parola aramaica Golgota, “teschio”. Sul nome convergono alcune chiavi di lettura: era questo infatti una cava di pietre utilizzata come sito per le esecuzioni capitali con l’aspetto nudo e tondeggiante che ricorda la forma nitida del cranio. Lo si ritenne il luogo in cui venne sepolto Adamo secondo una tradizione raccolta nella seconda metà del XIII secolo dal frate domenicano Jacopo da Varagine che, riprendendo Origene, autore cristiano del III secolo, riporta nella sua Legenda Aurea la presenza, in cima al Golgota, del teschio di Adamo.
Tornando alla maschera-teschio del dipinto veneto, si rammenta che Antonello giunse a Venezia nelle prime settimane del dicembre 1474, quando, prima ancora delle feste natalizie, in una commistione di sacro e di profano, si cominciava a delineare l’anima del carnevale che sopita nei giorni dell’Avvento, si ravvivava dopo l’Epifania in un crescendo trasgressivo fino alla Quaresima che segnava il tempo della carnem levare, locuzione che, per metatesi sillabica, spiega l’etimo e la natura del “carnevale” e, per metafora, il ritorno al tempo ordinario. Come è spesso accaduto per altre tradizioni in ambito cristiano, il tempo del Carnevale si è sovrapposto a precedenti ricorrenze pagane. Nelle feste dionisiache della Grecia antica e nei Saturnali d’epoca romana, l’ordine riconosciuto era necessariamente soverchiato, e talora sostituito dal disordine, con la radicata credenza che in quel periodo dell’anno ci fosse un avvicinamento tra il mondo dei morti e quello dei vivi: le anime potevano tornare ma non avevano un corpo, da qui il sinonimo “larva” (fasma), con cui si indicava anche il mascheramento veneziano, maschera come corpo provvisorio.
Antonello assimila dunque, in raffigurazione sinottica, la baùta e il teschio, dando a questo la veste di maschera e alla maschera la simbiosi (la bocca socchiusa e il mento puntuto) del teschio.
La presenza della maschera nella Pietà Correr che, velata dall’ombra del sepolcro integra l’immagine del teschio – seguendo la lezione sulla cura dei dettagli nelle opere d’arte di Daniel Arasse11 – spiega ancora una volta lo sguardo versatile pervaso di cultura, ironia, ingegno di Antonello e la “fortuna” del primo Rinascimento pittorico italiano legata alla sua breve permanenza a Venezia.
NOTE
1 C. MICALIZZI, Il Cristo in Pietà con tre angeliin Messina Medica, n.s., Messina dicembre 2024; IDEM, La maschera e il teschio di Antonello da Messina in «Gazzetta del Sud» a. 72, n°343, Messina 20.12.2024
2 T. CORRER (1750-1830), abate e collezionista. Il legato Correr costituì il momento fondante delle Civiche raccolte d’arte di Venezia. La collezione è oggi ospitata presso l’ex Palazzo Reale di Piazza San Marco
3 G. MANDEL, L’opera completa di Antonello da Messina, Milano 1967, p. 96
4 F. SRICCHIA SANTORO, Antonello. I suoi mondi. Il suo seguito, Firenze2017, p. 228
5 G. LUDWIG (1854-1905), storico dell’arte e fotografo. Per lascito testamentario destinò la propria collezione di fotografie di opere d’arte al Kunstistoriches di Firenze.
6 G. FRIZZONI (1840-1919), allievo di Giovanni Morelli.
7 C. MICALIZZI, La contrada dei Sicofanti. Tracce di un toponimo messinese del ‘400 in Antonello a Messina, Messina 2006, cit., pp. 79-88
8 D. DE PASQUALE, Antonello da Messina e il suo tempo, Barcellona P.G. (Me), 2021, p. 306
9 La baùta o “larva” è la più antica maschera veneziana. Il primo documento che la cita è un atto del XIII secolo in cui si dettaglia la dote di una sposa: cenno ad una consuetudine che spiega come fosse in uso già da molto tempo prima. L’etimologia del termine è incerta. Può derivare dal tedesco bahūten che significa “proteggere”, “custodire” o dal verso bau per spaventare i bambini
10 N. PRINCIPATO, Il Codice Antonello, Messina 2022, p. 187
11 D. ARASSE, Il dettaglio. La pittura vista da vicino, Milano 2023
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