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di Salvo Rotondo
RELAZIONE AL CONVEGNO “LA RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE MEDICA AI TEMPI DEL COVID – 19. I medici: eroi o potenziali indagati?” (Messina 8 luglio 2020).
Aristotele si chiedeva spesso “Qual è la cosa più veloce ad invecchiare?” e si rispondeva prontamente “La gratitudine” (Diogene Laerzio, “Vite dei filosofi”). Qualche migliaio di anni dopo, Enrico De Nicola (primo presidente della nostra Repubblica, quello che camminava col cappotto rivoltato e rifiutava l’indennità che gli spettava), affermava “La gratitudine è il sentimento della vigilia!”.
Sempre attuale questo concetto, anche nel contingente momento di emergenza COVID: i sentimenti della nostra società alternano retorica e cinismo, beatificazione e pubblico ludibrio, e tutto nel giro di poche settimane. È normale che tutto ciò avvenga in un Paese dalla memoria corta, capace di ricordarsi della classe medica solo nella fase emergenziale.
Fino alle prime settimane del 2020 nessuno immaginava cosa fosse il COVID 19, nessuno sapeva quali protocolli utilizzare, nessuno sapeva come curare. Tutte le affermazioni in tal senso sono state fatte attraverso ciò che si conosceva degli altri coronavirus. Da questo derivano le diverse convinzioni espresse dai numerosi opinion leader e le non infrequenti “marce in dietro” ed i cambiamenti di opinioni.
Era una fase “di guerra”. In guerra, come si sa, non si possono usare i metodi della pace. Per la complessità dei problemi non immaginabili che si succedono rapidamente e i cui tentativi di soluzione hanno fatto osservare ritardi diagnostici e ritardi terapeutici. Ci si è trovati quindi di fronte a una situazione nuova, imprevedibile e sconosciuta, dove le anche le decisioni di organismi istituzionali superiori e indipendenti (come l’OMS) sono state spesso fuorvianti (uso delle mascherine Si/No, guanti Si/No, 2 tamponi consecutivi Si/No, etc.) a testimonianza della complessità del problema.
A questo punto mi sembra necessario ricordare qualche numero per dare il giusto peso alla gravità del problema COVID: 239.706 soggetti hanno contratto l’infezione, 34.678 sono i deceduti e 103 i posti letto in terapia intensiva che in questo momento vengono occupati ancora da malati COVID-19 (dati aggiornati al 25 giugno 2020).
Ma come siamo arrivati a lavorare così in affanno?
Il taglio dei “rami secchi” è una antica procedura finanziaria e non una scelta economica. Prima dell’emergenza COVID19 il Sistema Sanitario aveva subìto un pericoloso ridimensionamento attraverso tagli lineari sulla base di calcoli fatti dai ministri di turno generati da spending review che hanno ridotto significativamente la rete ospedaliera con la chiusura di molte Unità Operative e rarefatto il personale dei reparti superstiti contingentando in maniera pericolosa la fornitura di materiali e attrezzature.
Pericolosa perché in alcuni casi, come nella sanità, spesso il vantaggio per la società deriva dallo spendere soldi a “fondo perduto” in attrezzature e attività pronte all’uso che non
verranno mai utilizzate. Poiché il loro uso presuppone il realizzarsi di gravi tragedie come quella che stiamo vivendo. In pratica la società, paradossalmente, deve essere contenta se spende soldi “a vuoto” per un Pronto Soccorso o una Rianimazione non utilizzata, perché, in caso di una loro saturazione, vuol dire che ci si trova di fronte a tragedie come quella che si sono vissute nelle “zone rosse”.
Accorgersi dei problemi quando la casa è in fiamme è una consolidata cattiva abitudine di chi ci governa. L’esempio è dato dall’aumento dei posti di terapia intensiva in Italia che, a seguito dell’emergenza COVID sono passati da 5.579 a 9.284 con un incremento del 79% in controtendenza a come era stata gestita la Sanità negli ultimi anni. In assoluta difformità da come si era comportata la Germania che poteva contare, di base, su 28mila posti di terapia intensiva pienamente operativi, cosa che le ha permesso di affrontare con maggiore tranquillità l’emergenza COVID. Da noi, invece eccellenze mediche sono state costrette a operare silenziosamente in strutture fatiscenti, schiacciate dalla burocrazia sanitaria.
Angeli ed Eroi
La situazione che si è venuta a creare negli ultimi mesi ha fatto si che si sia la classe medica in generale e tutti gli operatori sanitari, in particolare, fossero appellati con “apologetici epiteti encomiastici di omerica memoria”: Angeli, Eroi, Superuomini. Ma i medici non si riconoscono in nulla di tutto questo, perché sanno bene che il ruolo svolto nel corso dell’emergenza non ha nulla di eccezionale, è solo il frutto di una eccezionale normalità.
Se così non fosse negli ospedali non si registrerebbero montagne di ore di servizio in più (a titolo gratuito) necessarie a compensare i turni di lavoro lasciati scoperti da una programmazione scellerata di sottodimensionamento degli organici, dove il servizio straordinario non è retribuito ma va compensato con un riposo che genera, a ruota, altro straordinario da parte di colleghi chiamati a coprire a loro volta i turni.
Non dimentichiamo, poi, che nel corso dell’emergenza è stata sempre garantita l’urgenza di altra natura (i pazienti con problemi oncologici hanno continuato ad essere operati, così come quelli che presentavano addome acuto, aneurismi aortici in fase di rottura, ictus cerebrale, per non parlare delle appendiciti, delle uropatie ostruttive, dei parti).
Non va dimenticato, inoltre, che molti chirurghi si sono messi a disposizione per l’attività internistica anti-covid, alcuni di questi sono stati infettati, molti medici sono morti e tanti convivranno il resto dei loro giorni con reliquati patologici importanti.
Da Eroi a Bancomat
Momento storico nel quale si colloca l’emergenza COVID: dalla figura del medico inteso come colui che decideva insindacabilmente e paternalisticamente della terapia e talora della sorte del paziente, si è passati ad una evoluzione (involuzione?) con la concezione del medico come “preda risarcitoria” di avvoltoi spesso organizzati con atteggiamenti e comportamenti primordiali, istintivi e tribali.
L’entusiasmo del riconoscimento pubblico si è spento in fretta. È incominciata così la naturale fase del contrappasso alimentata da organizzazioni legali che complicano un sano e corretto equilibrio nei rapporti tra medici e pazienti tra medici e società.
Oggi vengono distribuite dalle più alte cariche dello stato encomi ed onorificenze per testimoniare il ruolo svolto nel corso della crisi di alcune figure professionali. Con il passare del tempo, però, a dimostrare quanto questi discorsi fossero meno che parole al vento non c’è stata alcuna azione che testimoniasse la reale percezione dell’importanza di tali figure per il paese, facendo precipitare nell’oblio e nell’invisibilità quelli che prima venivano chiamati eroi.
Oggi assistiamo invece, ed il trend è volto al peggioramento, alla più grave delle infamie quando si registra che i medici vengono chiamati in causa dalla Aziende Sanitarie in caso di sinistro, quando la denuncia è rivolta solo all’Azienda. O peggio a ricercare colpe mediche inesistenti da parte di improbabili pseudo danneggiati, quando ci si trova di fronte a situazioni dove il sanitario è l’unico elemento potenzialmente solvente (lui o la sua assicurazione) anche se è arrivato sul luogo del crimine a crimine avvenuto, attraverso fantasiose ipotesi di ritardi o errori di cura mai avvenuti.
I miti e gli Eroi
È ormai risaputo che mitizzare produce, paradossalmente, disumanizzazione. L’eroismo non consiste nelle competenze del professionista, bensì nel pathos del martirio, i medici diventano Eroi quando compaiono su Facebook con la faccia sporca o con il volto deturpato dai segni della mascherina o dei cerotti posizionati per farle aderire al volto, non vengono percepiti come eroi quando dimostriamo solo competenza.
Questa ipocrisia è stata evidente nei discorsi e nelle azioni dei politici ed amministratori che si sperticavano, nei loro discorsi, in lodi sfrenate appellando gli operatori sanitari come “gli angeli degli ospedali”, senza però, nei fatti, garantire una adeguata sicurezza sul posto di lavoro (prova ne sia gli oltre 170 medici deceduti per il COVID19). Ecco perché il 17 marzo 2020 la FNOMCeO denunciava pesantemente l’inadeguatezza e, in certi casi, l’assenza di DPI su chi combatteva in prima linea e, cosa non meno grave in tali situazioni, la mancata esecuzione dei tamponi su medici e infermieri.
Questo fa rivivere gravissimi episodi storici che evidentemente non sono serviti di insegnamento. Mi riferisco ai nostri soldati mandati sul fronte russo con divise ed attrezzature non adeguate alla situazione climatica, o ancora i soccorritori ci Chernobyl o, più recentemente, ai pompieri dell’11 settembre. Vittime sacrificali immolate sull’altare della ipocrisia della politica.
Lavorare in un reparto COVID
Lavorare in un reparto COVID nel pieno della pandemia significa lavorare in un non luogo, fuori dallo spazio e dal tempo dove spesso non ci si rende conto se è giorno o notte. Dove non era raro, soprattutto nei primi tempi della epidemia, che scarseggiassero i dispositivi di protezione individuale (DPI).
Lavorare in un centro COVID in piena pandemia significa lavorare spesso in ambienti mal condizionati, in affanno, con carenze di personale che causano turni di lavoro massacranti e soprattutto difficoltà di adesione ai protocolli (a causa di carenze di materiali, di sovraccarico di lavoro e turni, etc.) e quindi maggiore possibilità di complicanze e/o errori. Accompagnati costantemente da un grande stress psicologico.
Lavorare all’interno di tute impermeabili a “tenuta biologica” produce un “effetto sauna” degno delle migliori SPA. Le maschere filtranti, poi producono alcalosi respiratoria ed ipercapnia, per la evidente riduzione degli scambi di ossigeno, sudore e prurito (senza la possibilità di grattarsi). Per non fare appannare gli occhiali e per fare meglio aderire al naso le mascherine è indispensabile utilizzare un cerotto per farle aderire sul volto e non far passare l’aria espirata, con conseguenti lesioni, ferite e cicatrici. I visori di protezione in plexiglass, infine, determinano una morsa costante, per tutto l’intero turno, sul cranio spesso causa di insopportabili cefalee. La durata dei turni di lavoro e l’impossibilità di utilizzare i bagni in tali condizioni ha richiesto non infrequentemente l’uso di pannoloni-mutandina.
Aspetti Assicurativi
La responsabilità medica ha un valore di tipo organizzativo dove i sanitari sono un elemento di una complessa organizzazione di cui svolgono solo una parte.
Ma le assicurazioni copriranno il rischio derivante da eventi catastrofali come nel caso del COVID19?
L’INAIL, al momento, non riconosce la copertura assicurativa per chi non è dipendente, quindi, sembra che tutti i medici di famiglia, la continuità assistenziale e buona parte dell’emergenza restino scoperti dalla copertura sugli infortuni sul lavoro.
Parecchi chirurghi, in fase emergenziale, sono stati chiamati a fare gli internisti in terapia intensiva o in centri COVID a media intensità di cura. Saranno coperti dalle loro assicurazioni?
Nella prima fase emergenziale in Italia si sono avuti 300.000 interventi di elezione in meno una gran parte dei quali erano oncologici. Questo si ripercuoterà negativamente sulla prognosi di questi soggetti con un incremento notevole di casi avanzati difficili da curare. Quanti di questi tenteranno di rifarsi economicamente sui medici?
Gli aspetti collegati all’interpretazione (bias cognitivi)
Nel percorso decisionale diagnostico-terapeutico non è sempre semplice affidarsi ad una analisi critica degli sviluppi del quadro clinico per muoversi all’interno di strade codificate a priori.
In tali situazioni, infatti possono svilupparsi distorsioni sistematiche del giudizio retrospettivo che si concretizzano in diagnosi (fondamento di corrette terapie) che non sempre sono così appropriate a causa di specifiche fonti di errore determinate da processi cognitivi derivati dal nostro modo di ragionare in condizioni di incertezza.
Alla stessa maniera l’errore del giudizio retrospettivo porta a credere, erroneamente, che si sarebbe stato in grado di prevedere correttamente un evento una volta che questo è ormai avvenuto con conseguenti riflessi fuorvianti.
Tutto ciò avviene quotidianamente in ambiente clinico, ma quando la decisione medica viene giudicata “a posteriori” cosa succede?
Questo tipo di distorsione retrospettiva colpisce tutti gli uomini.
Soprattutto quando ci si trova di fronte a problematiche complesse e articolate, situazioni nelle quali spesso si trovano non solo i clinici ma, anche, avvocati, giornalisti, giudici, medici legali.
Non è infrequente, per cercare di “normalizzare” il campo d’azione, il tentativo di affidarsi alla valutazione per la corretta conduzione clinica all’interpretazione delle linee guida, ma queste non sono come il letto di Procuste. Se è infatti corretto considerare come diligente una condotta medica conforme alle linee-guida, vi sono troppo spesso (il paziente è un unicum che quasi mai può essere generalizzato) decisioni mediche che possono essere considerate diligenti anche se non aderiscono scrupolosamente alle linee-guida. Questo giusto ridimensionamento del valore delle linee guida è stato recentemente stabilito dalla Corte di Cassazione che ha definitivamente stabilito che esse non rappresentano un insuperabile “letto di Procuste” (il brigante della mitologia Greca che “normalizzava”, in funzione della lunghezza del suo letto, chi gli veniva a tiro, amputandogli le gambe o stirandolo a misura di letto). Le linee guida, invece devono riprodurre uno strumento atto a valutare la scelta clinica secondo modalità che non devono tuttavia prescindere dal singolo caso reale. Discostarsi da esse al fine di evitare complicanze nel paziente per le sue particolari condizioni o per ottenere risultati migliori in termini di tempo e di qualità di successo, rappresenta una norma che non va mai perduta di vista.
Non tralasciando inoltre il fatto che troppo spesso, sotto la pressione psicologica della possibile accusa di malpractice l’eccessiva aderenza alle linee guida espone a una medicina di difesa da tutti criticata ma da troppi praticata.
Con l’avvento della fase 3 fioccano le denunce da parte dei parenti dei pazienti deceduti nei mesi scorsi. In Lombardia sono stati centinaia di esposti presentati da parenti di pazienti deceduti nel corso dell’emergenza COVID. Le criticità denunciate sono diversificate e vanno dal ritardo nell’effettuazione del tampone a diagnosi indicate come errate o a terapie non adeguate.
Una delle soluzioni prospettate è stato quello di una sorta di “scudo” per la salvaguardia dei medici dalle possibili rivalse penali e civili nel corso dell’emergenza COVID19.
Sulla scia di questo è stato effettuato un tentativo di includere nei beneficiari dello scudo anche i dirigenti amministrativi, i direttori generali, i direttori territoriali e regionali, i vertici delle strutture sanitarie sia pubbliche che private al fine di garantire la posizione degli amministratori nei confronti di denunce e tentativi di rivalsa.
CONCLUSIONI
Questo contributo vuole rappresentare uno scambio di conoscenza, presupposto fondamentale della competenza che a sua volta è indispensabile per la comprensione della complessità della situazione in cui ci troviamo, che non può avvenire senza sufficienti e validi elementi di giudizio.
Per forma mentis rispettiamo protocolli, procedure e linee guida, ma non fateci pagare le colpe degli altri.
Ci meritiamo una classe politica che comprenda l’importanza delle fondamenta della nostra società (Scuola, Giustizia, Sanità) senza che si debbano realizzare tragedie come l’emergenza COVID per far comprendere che depotenziarne la struttura espone a gravi conseguenze, spesso irreparabili. Fino ad oggi sono sati apportati tagli senza alcuna ottimizzazione delle procedure o delle organizzazioni interne del sistema, generando solo criticità nella realizzazione del core-business.
È indispensabile ripensare ad una riforma complessiva che deve necessariamente coinvolgere chi lavora sul campo, perché solo chi lavora sul campo è a conoscenza di come si ottengono i migliori risultati con il minimo sforzo. Ripensare, quindi, il Sistema Sanitario attraverso alleanze e gioco di squadra: come nell’emergenza COVID, dove ha vinto il lavoro in Team che ha tutelato e salvaguardato i pazienti attraverso il lavoro di professionisti impegnati in prima linea.
Certamente un ruolo fondamentale verrà svolto dalla figura del medico consulente nella valutazione del caso cui si chiede il risarcimento. Un ulteriore ruolo fondamentale verrà ad essere rappresentato dal giudice che dovrà interpretare ed applicare la norma in caso di presupposta colpa medica.
La situazione folle che si è venuta a creare ci preoccupa e ci auguriamo che questa venga mitigata dal buon senso della giurisprudenza poiché al di la delle leggi, degli ordinamenti o delle linee guida, se un evento era eccezionale e all’epoca sconosciuto, è difficile pensare a risarcimenti esigibili.
Abbiamo fatto il nostro dovere in una situazione in cui non avremmo mai voluto trovarci, affrontando problemi che non avremmo immaginato neanche nei nostri incubi peggiori, vedendo e sentendo cose che non riusciremo mai più a dimenticare. Forse, più che riconoscimenti, desideriamo rispetto e comprensione.
Nessuno vuole lo scudo, nessuno vuole l’immunità, tutti vogliamo continuare a lavorare serenamente per svolgere la nostra naturale professione. Perché esercitare la nostra professione non significa custodire le ceneri delle conoscenze di chi ci ha preceduto, ma mantenerne viva la fiamma al fine di rinnovarne la comprensione dei valori per le generazioni future al fine di seminarne i frutti per una nuova stagione di raccolta.
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