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di Filippo Cavallaro
Da ragazzo una attività scout mi portò ad incontrare, insieme ai miei amici, Danilo Dolci (1924-1997). Andammo a trovarlo a Partinico e fummo ospitati lì, acquisendo in diretta, di prima mano, ciò che significava l’esperienza che si stava compiendo nel Centro Educativo. Un suo racconto tra i tanti pubblicati in varie lingue mi è tornato tra le mani nei primi giorni dell’anno, una pagina con l’angolo piegato, come segnalibro, mi ha portato a rileggere “un amico di Placido”. C’è la storia del sindacalista Placido Rizzotto raccolta dalla testimonianza di un compaesano, suo amico. Viene descritta una persona che non voleva agire di testa sua, una persona che ascoltava gli altri, tutti, invitando e sollecitando anche chi restava ai margini, in silenzio. Un attivista di quanto emergeva nelle discussioni, nelle riunioni, colui che metteva la sua faccia, per rappresentare il volere di tutti. Nell’ottica educativa di Dolci c’è l’ascolto a cui, con l’esempio di vita vissuta, dovrebbe derivare l’educazione del gruppo associativo, la formazione di buone pratiche sociali. L’ascolto nella mia esperienza con persone con disabilità è una componente cardine per costruire un percorso di riabilitazione e per confezionare, su misura, degli atti terapeutici, siano esercizi, e/o scelte di ausili. L’ascolto a volte è l’unica parte che mi trovo ad offrire nella richiesta di aiuto. Mi vengono in mente due esperienze passate, la prima con un bimbo di un mese, che i genitori mi portarono da valutare. Avevano già programmato un viaggio a Genova, per una visita prenotata al Gaslini due giorni dopo. Era chiara la gravità del bambino e comprensibile la preoccupazione dei genitori, io, da loro cercato per una comune, lontana, conoscenza, potei solo ascoltare la storia, dare qualche consiglio relativamente all’attenzione alla respirazione del piccolo. Non pensai assolutamente di presentare loro le varie opportunità presenti in Italia, per npn confonderli. Anzi confermai che era un ottimo centro quello dove si stavano recando, un posto dove il lavoro in team tra i vari professionisti è indice di ottima assistenza, e, che purtroppo, allora, dalle nostre parti, non mi risultava ci fosse nulla di simile. La seconda, in tempi più recenti, tramite un collega della Sicilia occidentale, con una ragazzina che a seguito di una malattia congenita stava maturando uno scorretto sviluppo del rachide. Mi misi a disposizione, ma non ho visto mai la ragazzina, ho ascoltato la madre molte volte al telefono, ed una volta di presenza. Per vari motivi gli appuntamenti per valutarla in day hospital, durante la mia esperienza al Nemosud, saltavano. Forse la mamma aveva bisogno di parlare, forse non aveva bisogno di chi l’aiutasse nella riabilitazione, la bambina era seguita dalla nascita dal servizio sanitario territoriale della sua città. Probabilmente avrebbe accettato chiunque la potesse ascoltare. Aveva bisogno di un orecchio … di una spalla …Io non so se questa è l’analisi corretta di quanto accaduto con questi due casi. Un dubbio però mi viene ogni tanto, ed il racconto di Dolci lo fa riemergere. Così come per Rizzotto, i tempi della formazione dei suoi concittadini erano più lenti, più lunghi, di quanto comunemente si pensa, anche in riabilitazione i tempi sono lenti e lunghi. Questo perché sia in ambito sociale, sia pedagogico, che riabilitativo il processo di cambiamento/recupero è da costruire passo passo, tenendo presente il traguardo lontano, ma sempre più vicino, e considerando positivamente quanto nel tempo lungo il percorso si presenta.
Se l’occhio non si esercita, non vede,
se la pelle non tocca, non sa,
se l’uomo non immagina, si spegne.
Quasi ho pudore a scrivere poesia
come fosse un lusso proibito
ormai, alla mia vita.
Ma ancora in me
un ragazzino canta
seppure esperto di fatiche e lotte,
meravigliato dei capelli bianchi
d’essere ancora vivo,
necessitato d’essenzializzarsi:
e al varco d’un malanno scrive versi
come una volta
quando il silenzio diventava colmo
futuro, chiarore che bruciava
la fatica del fare successivo.
Nel mio bisogno di poesia, gli uomini,
la terra, l’acqua, sono diventati
le mie parole.
Non importano i versi
ma in quanto non riesco a illimpidirmi
e allimpidire, prima di dissolvermi,
invece di volare come un canto
l’impegno mi si muta in un dovere.
(da “Poema Umano” di Danilo Dolci – 1974)