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di Filippo Cavallaro
Si farfugliava tra gli studenti.
Non volevo crederci, ma poi ho avuto conferma da altri.
Un docente … al Corso di Fisioterapia … nella didattica frontale, a lezione, in aula, parlando di neuroriabilitazione, ha spiegato che se, nel trattare un paziente neurologico, nel quale il rischio caduta è notevole, egli cade conviene lasciarlo a terra e far finta di niente.
Sono rimasto inorridito già alla prima descrizione, peggio ancora mi sono sentito ad ogni conferma.
La fuga, ed il pensiero di fuggire, per sentirsi sicuri da un’altra parte sono ricorrenti in molti, è legato alla paura. La fuga, ci dice la psicologia, non è la risposta corretta. Invece di scappare dal problema bisogna superarlo, in ogni caso averne consapevolezza e saperlo affrontare. Ogni giorno ci si trova di fronte a problemi, a correre dei rischi, nel caso della fisioterapia e del recupero motorio molte volte ci si trova a dover affrontare il rischio clinico legato ad attività che sono fondanti l’autonomia personale. Pensiamo alla verticalizzazione, quando dopo un periodo di allettamento causato da una malattia di qualunque tipo bisogna mettere in piedi quella persona. Abbiamo paura che non ce la faccia, anche se l’abbiamo preparata a quel passaggio posturale, al grande impegno, quando da seduto passerà in piedi. Per quanto possiamo aver programmato correttamente quel momento, abbiamo paura che qualcosa possa non permettere al paziente di raggiungere la posizione eretta.
Stiamo accanto, vicino, abbracciati al paziente … il rischio c’è. Potremmo perdere la presa, potremmo non farcela noi, potrebbe essere troppo impegnativo per lui. Confidiamo sul fatto che dietro c’è la sedia o il lettino dal quale dopo aver mantenuto la posizione seduta si spiega, si mima, e poi si propone di andare in piedi.
La paura, la consapevolezza del rischio che si correrà, la gioia del successo per l’impegno condiviso. Non la fuga, mai! Se anche dovesse succedere che non si riesca, lo si accompagnerà a sedersi.
Come richiede la noterella due saggi mi sovvengono alla mente, il secondo, regalatomi da Roberto, letto proprio durante le vacanze di Natale 2022.
Il primo è di diversi anni fa, scritto dal neurofisiologo francese Henri Laborit, pubblicato in Italia da Mondadori nel 1982, dal titolo Elogio della fuga.
Una sua citazione è chiarificante di questo “elogio”, parla del veliero nella tempesta: “Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta delle navi cargo e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama “Desiderio”. È questa fuga che viene elogiata, quella di essere capaci di perseguire un obiettivo anche se cambia continuamente. Nella scienza e nella conoscenza è così: più si studia; più ci si avvicina alla soluzione; più ci si sente ignoranti per i tanti aspetti che ancora non si sono esplorati. Non ci si sazia mai di conoscere e così si fugge dall’abitudine, ma soprattutto dall’indifferenza.
L’altro romanzo racconta di chi non è stato indifferente e si prende carico di una sconosciuta. Si tratta di Bill Furlong, protagonista del recente saggio di Claire Keegan, Piccole cose da nulla, per Einaudi. Un incontro casuale, un luogo isolato, un ambiente chiuso, ideale per le tante situazioni scomode della vita reale che, in passato, si preferiva risolvere allontanandole, ignorandole. Scopre grazie a quell’incontro il senso di essere vivi … aiutarsi l’uno con l’altro, fuggendo da quel posto di solitudine, emarginazione, reclusione. Dare libertà.
Se siamo una professione d’aiuto, ed è questo che bisogna insegnare ai futuri professionisti in fisioterapia, come si può a lezione consigliare l’indifferenza, promuovere ciò che è contro ogni umanità.
Filippo Cavallaro