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A CURA DI PEPPE RUGGERI
“Lettere da Salina” di Gerardo Rizzo
(Di Nicolò Edizioni, 2019)
Si snoda come un memoriale che rincorre, filo per segno, un’improbabile unità di spazio e di tempo il lungo racconto del protagonista di “Lettere da Salina”. Dall’alto dei suoi cent’anni, trascorsi attraversando un secolo con tutte le sue luci e ombre, il vecchio Franco Alaimo imbastisce la rappresentazione della sua vita. Di un se stesso, per meglio dire, cresciuto sullo sfondo di un’isola-madre, un luogo dell’anima impossibile da estirpare da tale rappresentazione. Un legame, il suo, tanto viscerale da costituire la trama stessa di un romanzo, il quale ha sostituito ai dialoghi che tanto abbondano – spesso anche a dismisura – nelle pagine del genere, il flusso non sempre piano dei ricordi che a volte si riducono a baleni, guizzi, fiammelle. Un materiale incandescente quello che Alaimo mette in campo, per certi versi omologabile al magma che crepita sotto il suolo di Salina, isola vulcanica, suscitando i suoi continui sommovimenti tellurici.
Pochi i dialoghi, è vero, ma molta – e comunque mai troppa – la ricchezza descrittiva grazie alla quale l’autore riesce a sbozzare personaggi propri di un mondo che appartiene solo alla memoria collettiva, mancando ormai di riscontri tangibili con l’attualità. E’ una Salina “teatro di memorie” – per dirla con Leonardo Sciascia – il proscenio di questa rappresentazione, a tratti nostalgica ma sempre presente a se stessa, scorrevole ma mai incalzante, giocata tra piani temporali diversi. Le figure che affiorano dallo spesso strato della memoria, ove sono sedimentate negli anni nei quali è maturata l’esperienza dell’io narrante, posseggono una rara plasticità che le rende quasi palpabili, simboli vivi di una dimensione solo in apparenza fluttuante, in realtà appannaggio solido della complessiva personalità del protagonista.
Storico e annalista di valore, l’autore, con logica consequenzialità, traccia un puntuale ‘excursus’ di alcuni avvenimenti del secolo scorso. Un secolo di guerre e cataclismi, di eccidi e grandi rivoluzioni civili e culturali, vissuto attraverso gli occhi e la coscienza di chi, pur dall’apparente marginalità della sua condizione insulare, tutto questo ha potuto respirare.
Ma non è solo quella storica la cifra caratterizzante il romanzo, perché a connotare il testo sono indubbiamente anche il concetto d’identità, il senso della famiglia, le tradizioni tramandate di generazione, il rapporto tra padri e figli. Intriso, quest’ultimo, da una profonda tragicità, come peraltro emerge dalla parte finale del romanzo, per l’irreparabilità delle crepe che vi s’instaurano e che segnano profondamente la vita del protagonista.
Vivace e suggestiva l’ambientazione, che restituisce al lettore l’intenso legame dei personaggi con la natura circostante, in una sorta di “realismo magico” – sulle impronte di Giuseppe Bonaviri – pullulante di streghe volanti e alberi che si animano per proteggere i naviganti dalla furia del mare. Il tutto inserito in un quadro complessivo dove non è più possibile, a un certo punto, separare il chi dal cosa, la natura dalla divinità, il mistero dalla luce della rivelazione.
Lo stile è asciutto ed elegante, in linea con il rigore scientifico dell’autore, il quale non consente mai che lo straripare delle emozioni possa in alcun modo incrinare il fluire della narrazione. E di emozioni abbonda questo testo intensamente rievocativo, che cuce un disegno di voci e gesti e quadri di vita destinato ad attrarre il lettore in una potente rete empatica. Anche l’uso incidentale di locuzioni dialettali non può che ulteriormente arricchire la raffigurazione di un affresco a più tinte – non ultima quella popolare – in grado di imprimersi in modo significativo nella memoria.
Nel solco della rassegnata considerazione che il tempo toccato a ciascuno altro non è se non una necessaria parentesi da trascorrere nell’oceano di un’eternità muta e imponderabile, il protagonista, prima di festeggiare i suoi cent’anni tra canti e suoni di piazza, raduna infine intorno a sé i fantasmi del suo passato. Gli terranno compagnia sino al termine dei suoi giorni, nella consapevolezza che, se pure tutto diviene, nulla si è senza essere anche quelli che si è stati. E proprio questo sembra il senso finale della lunga lettera che il vecchio Franco Alaimo scrive a un nipote che non ha mai conosciuto e al quale affida il testimone di una vita destinata a continuare anche dopo la sua apparente sospensione temporale.