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Dall’archivio di Messina Medica, articolo pubblicato il 20 Novembre 2018
di Giuseppe Ruggeri
Con la recente sentenza n° 31628/2018 della Corte di Cassazione – IV sezione penale, di fronte a una situazione di pericolo per l’integrità fisica del paziente il medico ha l’obbligo di procedere “motu proprio” alle cure necessarie, predisponendo i presidi e i trattamenti per prevenire conseguenze pregiudizievoli o addirittura letali, anche in assenza di consenso informato. La decisione della Suprema Corte conclude il procedimento a carico di due medici i quali, nel lontano 2005, avevano omesso di somministrare la specifica terapia antitetanica e antibiotica a una paziente giunta in pronto soccorso con numerose ferite da taglio a polsi e addome. Tale trattamento non sarebbe stato praticato – questa la linea della difesa – in quanto mancava a monte il consenso informato da parte della paziente, affetta da una depressione cronica che l’aveva condotta a un estremo gesto di autolesionismo.
Secondo la Cassazione, pertanto, salvare la vita di un paziente prevale su tutto il resto, specie in caso di urgenza e in condizioni in cui il paziente in questione (nel caso particolare psichiatrico) non sia in grado di esprimere il proprio consenso all’atto sanitario. In corpo alla sentenza, viene peraltro ricordato come già le Sezioni Riunite abbiano sancito che “non integra il reato di lesioni personali né quello di violenza privata la condotta del medico che sottoponga il paziente a un trattamento terapeutico in relazione al quale non sia stato prestato il consenso informato, nel caso in cui lo stesso, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, essendone derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso”.
Conseguenza dell’omissione terapeutica, la morte della paziente per grave insufficienza respiratoria a causa d’infezione tetanica. A motivo di ciò, gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli dei reati di omicidio colposo e cooperazione nel delitto colposo (artt. 589 e 113 c.p.), per cui sono state spiccate, in via definitiva, una condanna a sei mesi di reclusione a carico del medico d’urgenza che aveva avuto in cura la paziente, e una condanna a quattro mesi di reclusione a carico del medico che l’aveva dimessa; quest’ultimo ritenuto colpevole in quanto, ancorché su di lui gravasse l’obbligo di esaminare in chiave critica la relativa cartella clinica, lo stesso non mosse alcun rilievo al collega, il che avrebbe consentito di evidenziare la mancata somministrazione degli adeguati trattamenti salvavita alla paziente.
Un giudizio, insomma, che fa riflettere sulla categorica necessità di salvaguardare a ogni costo la vita dei pazienti, indipendentemente dalle pastoie burocratiche che possano ostacolare l’adempimento di quello che resta il dovere fondamentale della classe medica.