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di Giuseppe Ruggeri
“Una rinascita la vedo soltanto attraverso una catastrofe sociale di tutte le micro-società che si chiamano nazioni. Una rinascita degli uomini che penseranno in primo luogo di appartenere a una sola razza: la razza umana”.
(F. De Andrè)
Che significa appartenere alla razza umana? Non è solo questione di caratteristiche genetiche, di combinazioni cromosomiche o quant’altro: appartenere alla razza umana acquista un significato tanto più ampio e profondo quanto più la mente si apre alla complessità della nostra condizione. E’ da tale assunto che si deve, secondo me, necessariamente partire – anzi ripartire – se vogliamo immaginare un “transumanesimo” all’altezza del ventaglio delle potenzialità insite nel concetto stesso di “uomo”.
Difficile pensare all’uomo del domani se lo circoscriviamo entro uno spazio piatto qual è quello che in atto noi occupiamo grazie al sempre più schiacciante predominio dell’economia sulla persona, alla netta prevalenza del capitale finanziario su quello umano, alla pressante preponderanza dello Stato (e le sue leggi) sulla nostra coscienza individuale.
Negli ultimi anni dell’Ottocento, Leone XIII, con l’Enciclica “Rerum novarum”, denunciò le prepotenze stataliste che si preparavano a colpire la realtà familiare. “La famiglia, cioè la società domestica” osserva il Papa “è una società piccola ma vera, anteriore a ogni società civile; e pertanto possiede diritti e doveri propri, indipendenti dallo Stato (…) E’ un grave e dannoso errore volere che lo Stato possa intervenire a suo arbitrio nel santuario della famiglia”.
L’uomo, insomma, viene prima d’economia e Stato ma ciò, va subito ribadito, non legittima che la gestione della cosa pubblica debba essere affidata all’operato soggettivo, piuttosto rivaluta l’importanza di una volontà svincolata da legami di sorta, ai fini di acquistare un’indipendenza di giudizio che è il fulcro dello spirito critico che dovrebbe animare ciascuno di noi.
Perché insistere sulla necessità dell’autonomia del pensiero? Per il motivo che oggi, come purtroppo già in altre epoche è successo, assistiamo a una progressiva e furiosa “catastrofe” di questo pensiero, in luogo di un processo di omologazione sempre più promosso e favorito dai poteri dominanti. Confinando chi vorrebbe discostarsi dal “mainstream” dominante in una condizione di minorità, sperando così di spegnere ogni voce ritenuta “fuori dal coro”. Sicché proprio quando, in virtù dei progressi tecnologici ottenuti, dovremmo finalmente vivere una nuova e felice era caratterizzata dal rafforzamento e il consolidamento della salute psico-fisica in termini di qualità di vita e complessiva proiezione futura, ci tocca piuttosto assistere a una caduta verticale della salute dell’anima. Come se essa fosse incompatibile con la salute materiale di cui abbiamo appena detto. Come se il conseguimento del nostro tanto auspicato “transumanesimo” debba per forza prescindere dai principali connotati di libertà e autonomia di pensiero.
Il filosofo francese Alain Denault, stigmatizzando la sostanziale mediocrità – tutt’altro che “aurea” come quella, ben diversa, celebrata dal poeta Quinto Orazio Flacco nell’era augustea – definisce “mediocrazia” l’odierno sistema di potere, un sistema ben articolato che si avvale di un complesso e raffinato intreccio di componenti di cui trovo oggi preminente la componente mediatica. La capillare diffusione “a rete” di “certa” informazione mass-mediale ha difatti gradualmente modificato, fino a capovolgerlo, il suo ruolo originario, che doveva esser quello di supportare il potere finanziario e politico da cui dipende. Oggi quest’informazione ripetuta e battente, dimentica ormai delle più elementari – e fondamentali – regole deontologiche, plasma l’opinione pubblica stordendola e intimorendola così com’è avvenuto riguardo la “narrazione” della pandemia da Covid-19, o della guerra tra Russia e Ucraina o ancora tutte le informazioni che “pesano” sulla visione globale del quotidiano. Un quotidiano edulcorato o dipinto a tinte più fosche di quanto non sia, al fine appunto di mascherare la verità inducendo giudizi non corrispondenti alla realtà dei fatti.
Avevamo davvero bisogno di questo “transumanesimo”? Io credo di no, così come credo che le trasformazioni sociali, specie quelle che avvengono a prezzo di sangue e di dolore – penso alle immani tragedie del secolo ventesimo, alle guerre e agli stermini che ne sono conseguiti – debbano essere costantemente irrigate dalla linfa della memoria. Memoria di quel che è stato, perché tutto questo non succeda più e chi ne è stato responsabile, piuttosto che di pur comprensibile nemesi eterna, sia oggetto e tema di studio al fine di capire e prevenire le circostanze che hanno dato luogo all’irreparabile. Perché ogni tragedia, fuor da ogni pianto e disperazione, sia causa e spunto di rinnovamento della nostra visione del mondo, del nostro rapporto con gli altri, del significato che intendiamo dare all’esistenza.
Il transumanesimo che ci serve è piuttosto una sorta di “terza via” – come la definisce lo scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton, ideatore e assertore del “distributismo”, una teoria economico-sociale che mette al centro l’uomo libero che si assume la responsabilità di sé. Secondo Chesterton, occorre distruggere il cosiddetto “stato servile”, poiché a suo giudizio il liberal-capitalismo e il social-comunismo, lungi dall’essere tra loro poli opposti, in realtà rappresentano due facce della stessa medaglia, la tendenza cioè a concentrare il potere nelle mani di una ristretta oligarchia, sia essa su base capitalista o una ristretta nomenclatura statale. Il problema dei capitalisti, usava dire Chesterton, “non è che ci sono troppi capitalisti ma che ce ne sono troppo pochi”. Concludendo che “solo un sistema in cui ci sarà sempre chi produce e chi può comprare, in cui quindi la proprietà produttiva è massimamente diffusa, può raggiungere quell’equilibrio in grado di garantire stabilità e prosperità per tutti”.
E concludo anch’io, soggiungendo in modo sommesso che, poiché in tema di transumanesimo i giochi restano sempre aperti, è compito dell’uomo di oggi far sì che l’uomo del domani resti anche lui, e a pieno titolo, uomo. Uomo nel senso di quel ventaglio di potenzialità su cui si diceva all’inizio e che, se debitamente indirizzate, sono in grado di rendere la comunità umana la più viva parte dell’universo creato, ove pulsa in modo intermittente ma continuo l’”anima mundi”. Che, almeno per chi vi parla, ha un solo immutabile Nome.
(testo relazione pronunciata nel corso del Convegno “Oltre l’Uomo” – Mente e Archetipi, Corpo e Anima, Luoghi e Tempo – Mandanici (ME) 9-11 settembre 2022)