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di ROBERTA VILLA
Al momento non abbiamo nessuna prova che esistano malattie croniche paragonabili a long Covid che possono seguire a un raffreddore o a una leggera influenza, recentemente ribattezzate dalla stampa “long cold” o “long flu”.
Senza dubbio può capitare che i sintomi delle infezioni respiratorie si trascinino più a lungo dei sette giorni canonici entro cui in genere si risolvono: se c’è stata febbre alta o difficoltà a nutrirsi per diversi giorni, ci si può sentire deboli per un periodo più lungo; una tosse irritativa – anche dopo la risoluzione della fase acuta – talvolta può persistere per settimane.
L’influenza, poi, diversamente dai comuni raffreddori o dalle altre infezioni respiratorie acute con cui spesso si confonde, non è affatto un banale malanno. Sebbene più raramente di quanto faccia SARS-CoV-2, può estendersi oltre le vie respiratorie provocando miocarditi, encefaliti e altre complicazioni a livello di altri organi [1,2]. Non di rado l’infezione scende dalle alte alle basse vie aeree, con bronchiti o polmoniti sostenute dal virus stesso o da una sovrapposizione batterica che il medico può ritenere di dover curare con antibiotici. Questi, soprattutto se presi in maniera inappropriata, possono alterare il microbiota intestinale provocando disturbi gastroenterici [3].
Spesso un’influenza lascia prostrate a lungo anche persone giovani e precedentemente sane ed è stato segnalato che può avere un impatto negativo sulle difese dell’organismo, facilitando così successive infezioni, virali o batteriche [4]. Da sempre sappiamo poi che una patologia respiratoria importante, soprattutto se ha provocato un ricovero in ospedale o – ancor più – in terapia intensiva, può richiedere per la convalescenza anche tempi lunghi, di settimane o mesi.
Ma si tratta di situazioni comuni, che si sono sempre verificate, il cui meccanismo è chiaro e che non rispecchiano l’emergere di nessuna “nuova malattia”.
Dottore, conta quanto è grave la malattia iniziale?
Con la pandemia da Covid-19 si è visto che anche infezioni molto lievi o asintomatiche possono lasciare sintomi persistenti a distanza di mesi, o anni, in circa una persona su dieci. È questa la caratteristica che identifica nettamente “long Covid”. La sindrome può inoltre manifestarsi con più di 200 sintomi diversi, di gravità variabile, dal leggero malessere all’invalidità, comparsi o persistenti per almeno due mesi a distanza di tempo (a seconda delle definizioni, da quattro settimane a tre mesi) dall’inizio della fase acuta [5,6].
Molti studi hanno dimostrato, oltre a possibili conseguenze dell’infezione sul sistema immunitario, la persistenza del virus SARS-CoV-2 in molti tessuti dell’organismo, da cui dipenderebbe la eterogeneità delle sue manifestazioni [7,8].
Dottore, ma allora perché i giornali parlano di “long cold” e “long flu”?
L’enorme numero di persone che hanno preso Covid-19 nei primi anni della pandemia ha permesso alla minoranza che soffre di sindromi persistenti di fare massa critica e ottenere che la malattia venisse riconosciuta come tale, con il nome di “long Covid” suggerito dai pazienti stessi.
Come sapere che situazioni analoghe non si verifichino anche dopo altre infezioni respiratorie lievi, dove passano inosservate per incapacità di medici e pazienti di individuare un rapporto di causa ed effetto tra il raffreddore di un mese prima e i disturbi di oggi?
Se lo è chiesto un gruppo di epidemiologi della Queen Mary University di Londra, mettendo a confronto le informazioni raccolte su circa 1.300 persone guarite da Covid-19 nel Regno Unito con meno di 500 che nelle quattro settimane precedenti avevano avuto un’altra infezione di tipo respiratorio e oltre 8.000 persone che di recente non si erano mai ammalate. Nessuno, a quel tempo, cioè tra la fine gennaio e la prima metà di febbraio del 2021, si era ancora vaccinato contro Covid-19 [9,10].
Come previsto, chi era reduce da un’infezione da coronavirus nei mesi precedenti aveva una maggiore probabilità di avere i sedici sintomi di long Covid considerati, in particolare capogiri, vertigini e perdita di capelli, ma soprattutto disturbi dell’olfatto e del gusto rispetto a chi non si era mai contagiato o si era preso altri malanni.
Anche questi ultimi pazienti, tuttavia, dopo un mese dall’insorgenza dell’infezione, non stavano ancora bene come chi non si era mai infettato, lamentando, pur con frequenza minore, molti sintomi: soprattutto disturbi gastroenterici, tosse e alterazioni della voce. Per i problemi di gusto e olfatto e i dolori ossei o muscolari non si sono invece registrate differenze significative rispetto al gruppo di controllo.
Dottore, ma quindi questo studio dimostra l’esistenza di un “long cold”?
Lo studio conclude che dopo un mese da altre infezioni respiratorie è possibile ancora avere disturbi di vario tipo, che però potrebbero essere spiegati, come abbiamo detto, per esempio con le sequele di una terapia antibiotica, che non sappiamo se è stata prescritta. Inoltre, ben un quarto delle persone di questo gruppo soffriva di asma, una comorbidità che potrebbe giustificare la persistenza della tosse dopo un’infezione respiratoria.
Sotto l’unico ombrello di infezioni respiratorie “non Covid” sono inoltre raggruppate infezioni molto diverse, per gravità e conseguenze. Un paziente su tre, tra questi, aveva avuto una polmonite. Non stupisce che dopo un mese non fosse ancora in piena forma. Pochissimi invece, in questo stesso gruppo, i casi di influenza, a causa delle misure anti Covid che all’inizio del 2021 erano ancora in atto nel Regno Unito come quasi ovunque nel mondo: solo 25 pazienti (poco più del 5%) riferivano di aver avuto sintomi compatibili con un virus influenzale o parainfluenzale. Troppo poco, comunque, per parlare di “long flu”.
Dato il momento in cui si è svolta la ricerca, non si può nemmeno escludere che parte di questi casi fossero in realtà infezioni da coronavirus con un test falso negativo. I dati, infatti, non sono stati raccolti direttamente dai ricercatori, ma sono stati comunicati online dai cittadini nel corso di un’iniziativa (COVIDENCE UK Study) basata su questionari mensili, compilati su base volontaria da chi – sollecitato da annunci su media tradizionali e social media – liberamente decideva di partecipare. Non si tratta quindi di un campione rappresentativo della popolazione, tanto che i rispondenti sono quasi tutti bianchi, per il 70% donne e con un’età media superiore ai 62 anni. Sebbene il limite posto dai ricercatori fosse solo di aver compiuto 16 anni, le persone sotto i 50 erano nettamente sottorappresentate.
Insomma, è possibile che anche altre infezioni respiratorie lasciano strascichi per un mese, ma, almeno per il momento, non pare che ci siano gli elementi per parlare di “long cold” o “long flu”. Né è necessario evocare nuovi nomi per ricordare che questo può accadere o per evitare che questi malesseri siano sottovalutati. Al contrario, insistere su questa idea potrebbe banalizzare long Covid, una malattia che già soffre per l’ampiezza della sua definizione e la mancanza di test di laboratorio o strumentali che la certifichino.
Dopo lo slogan fuorviante secondo cui Covid sarebbe “solo” un’influenza o un raffreddore, si rischia di far passare il messaggio secondo cui anche long Covid non è altro che un “long cold” o una “long flu”. Meglio evitare, almeno per rispetto nei confronti di milioni di persone la cui vita è stata segnata dall’insorgenza di questa malattia.
(Fonte: dottoremaeveroche.it)