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Dall’archivio di Messina Medica, articolo pubblicato l’11 Gennaio 2019
di Marianna Gensabella Furnari
(Tratto dalla relazione al convegno del 17 dicembre tenutosi all’Università di Messina sul rapporto tra fede e scienza)
Carissimi, unisco i miei saluti e i miei ringraziamenti a quelli della professoressa Rossella Musolino: al Magnifico Rettore, Professor Salvatore Cuzzocrea, per la concessione dell’Aula Magna e per avere con la sua consueta sensibilità sostenuto l’iniziativa, al Presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Messina, Professor Giacomo Caudo, all’Associazione A.L.I.Ce Messina, che ha dato il Patrocinio, ai Presidenti dei Corsi di laurea in Medicina e Chirurgia e in Scienze Infermieristiche, per la presenza degli studenti. Un grazie particolare al nostro principale relatore, il Professor De Franciscis, che terrà la lectio magistralis.
Sono veramente dispiaciuta di non potere partecipare ad un incontro alla cui organizzazione avevamo lavorato con entusiasmo, insieme alla carissima amica Rossella Musolino e al caro collega Emanuele David, tenendoci in costante contatto col Professor De Franciscis. Ma, purtroppo, venerdì scorso un problema di salute mi ha costretto a fermarmi a Roma, dove mi trovavo per partecipare ai lavori del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Vorrei, però, tener fede all’insegnamento di mio padre, che mi diceva che bisogna sempre volgere in bene il maleche capita, e inviarvi comunque un breve intervento sulla speranza del malato, che affido alla voce amica della dottoressa Maria Laura Giacobello. L’ho ripensato più chein chiave teorica, filosofica, alla luce della mia esperienza di malata, sacrificando, e me ne scuserete, anche la precisione delle citazioni, vista l’impossibilità attuale di controllarle i testi di riferimento.
Prima della speranza del malato è forse del suo dolore che bisogna parlare: un dolore che non è solo “nella malattia”, ma “della malattia”. Mi spiego meglio: non solo il dolore fisico che la malattia provoca, ma il dolore psichico dell’essere malato. Basta pensare a ciò che si prova in un ricovero: il momento prima si ha un’identità, un ruolo; si è artigiani, professori, maestri, o semplicemente il Signore o la Signora Rossi. Un’identità che i vestiti ricoprono e mostrano. Il momento dopo ci si spoglia dei vestiti, certo, ma anche dell’identità: si è il pancreas appena arrivato, il letto 24 o altro ancora. L’identità è ricordata, sì, ma solo a fini anagrafici-identificativi: l’età, la residenza, il codice fiscale. Niente di ciò che si è, di ciò per cui ci riconosciamo e desideriamo essere riconosciuti, ha più importanza.
È la barriera, il muro più o meno invisibile, che si alza tra mondo dei sani e mondo dei malati. Qualcosa di antico, che la tragedia di Filottete ricorda. Guerriero esperto nel tiro dell’arco, Filottete è morso da un serpente, le sue ferite destano ribrezzo e Ulisse e i compagni lo abbandonano sull’isola di Lemno: non può più combattere. A che serve ormai? Scopriranno, dopo dieci anni, dall’oracolo, che solo l’arco di Filottete potrà salvarli. Nella tragedia di Sofocle la prima idea di Ulisse è inviare Neottolemo per sottrarre a Filottete, con l’inganno, il suo arco. Ma il pentimento di Neottolemo, con la restituzione dell’arco a Filottete, conduce a un lieto fine: il suo ritorno nella terra dei sani, dove sarà guarito e curato. Ma che ne è dei dieci anni di dolore, di isolamento, trascorsi da Filottete a Lemno? E se l’oracolo non avesse parlato? Se Neottolemo non si fosse pentito?
La storia, come sappiamo, si ripete e spesso senza oracoli, senza pentimenti. Chi è sano è nel mondo del lavoro, della produzione, della politica, un mondo retto dalle tre E: Efficienza, Efficacia, Economicità. Chi è malato è fuori, o perlomeno rischia di esserlo, un rischio che è proporzionato alla gravità e alla durata della sua malattia. Meglio metterlo da parte, a riposo, per il bene suo e della società. Perché dargli incarichi che lo affaticano, che più sono importanti più sono gravosi, per lui? E se non li potrà portare avanti?
Non fare mistero della propria malattia è, allora,andare incontro al rischio di essere esclusi da incarichi più o meno importanti, così come dal quotidiano scorrere di una vita di relazioni economiche e sociali. Perché farlo,dunque? Per trasparenza, per una chiarezza nei rapporti personali e sociali, ma anche per dare un contributo, difficile, personale, direi sulla propria pelle, per superare quelle barriere di cui dicevamo tra sani e malati, e le difficoltà che comportano, che crescono con la gravità della prognosi in termini di attesa di vita e di previsioni sulla sua qualità, portando con sé rischi di sottili, non detti, stigmi e discriminazioni.
Il dolore psichico del malato è, soprattutto, questo, è il dolore dell’esclusione, dell’isolamento dal mondo dei sani,a cui prima si apparteneva e a cui si vorrebbe – ecco la prima speranza del malato – tornare.
Ma è di una particolare, ampia, variegata categoria di malati che vi vorrei parlare: i pazienti cronici. Chi sono i pazienti cronici? Quelli che stanno nel mezzo, tra sani e malati. Non sono sani, ma il cronicizzarsi della malattia spesso permette loro di vivere nel mondo dei sani, di camuffarsi da sani, fino a quando la malattia non emerge,dando un segno.
Certo, nel mondo dei malati cronici c’è un’enorme varietà in grande crescita con l’avanzare dell’età: si va dalle patologie più comuni e abbastanza governabili, come il diabete e l’ipertensione, a quelle più inquietanti per lo stesso nome che recano, come alcune forme di leucemia cronica, ma che, pure, consentono una certa attesa e una discreta qualità di vita, e ancora a quelle che si cronicizzano, ma che, già dalla diagnosi, sono segnate da un decrescere della qualità della vita, come le malattie neurodegenerative.
Una cosa, però, accomuna i malati cronici: la perdita della prima speranza del malato, la speranza di guarire. L’esonero totale di cui gode per la patologia è accompagnato per il malato da una sentenza: non ne verrà fuori, dovrà cambiare stile di vita, seguire una terapia, fare costanti accertamenti. Insomma, la sua vita è cambiata e la salute non è più un “bene nascosto”, come scrive il filosofo Hans Georg Gadamer, non è più il silenzio armonioso di un corpo di cui si pensa di avere pieno possesso, ma un bene precario, da custodire con cura. La vulnerabilità, che appartiene a tutti, sani e malati, e che uno de padri fondatori della bioetica, Warren Thomas Reich, definisce “l’esposizione alle ferite, al danno e alla morte”, non può più essere rimossa: è lì, costantemente evidente, in ogni esame, in ogni pillola dimenticata, in ogni sintomo vero e presunto.
E la speranza? La speranza è per ogni essere umano il respiro della vita: sulla sua importanza per le nostre esistenze si soffermano noti filosofi, da Gabriel Marcel a Ernst Bloch, ma forse non è nemmeno necessario richiamarli. Basterebbe soffermare, ognuno, il pensiero sulle proprie esperienze. Cosa saremmo senza speranza? Come dice Marcel, il tempo della speranza è “un tempo aperto”, il tempo dei progetti, del futuro; mentre il tempo della disperazione è “un tempo chiuso”, ripiegato su un passato che si può solo rimpiangere. L’essere umano che sperimenti la disperazione è “come una nave bloccata nel ghiaccio”. Non riesce a far nulla, nemmeno ad avere relazioni.
Lo sanno i medici: sanno che la speranza sostiene e anima la cura e che il diritto alla verità non deve mai realizzarsi chiudendo le porte a “elementi di speranza”, come indica chiaramente l’articolo 33 del Codice di Deontologia Medica (2017). Ogni diagnosi, la più infausta,non deve mai privare il malato del secondo dono diPrometeo agli uomini: l’avere oscurato l’ora della morte. Se possiamo sopportare il peso della nostra mortalità è perché un tratto separa la mors certa dall’ hora incerta. Quel tratto, quella distanza è un dono prezioso che non possiamo perdere: lì, sino all’ultimo, la speranza respira.
Ma torniamo al malato cronico: quale è la sua speranza? Non la speranza della guarigione, ma quella della cura. Come ormai detto più volte, sino a divenire uno slogan, “ci sono malati inguaribili, ma non malati incurabili”. Questo è senz’altro vero, ma se dobbiamo passare dalla vuota retorica all’etica applicata, dobbiamo realmente sostenere la speranza di cura del malato inguaribile, a tutti i livelli in cui la sua malattia si trova. È questo forse il primo compito affidato alla competenza e alla professionalità dei custodi della salute, i medici, ma anche a tutti coloro che stanno accanto al malato, familiari, operatori sanitari e socio-sanitari. Dilatando sempre più il cerchio di ciò che si chiama oggi “l’alleanza terapeutica allargata”, direi che è il compito affidato alla responsabilità sociale, in particolare alle politiche per la salute.
Certo, sostenere la speranza del malato a volte è facile: la malattia è non solo curabile, ma compatibile con una buona qualità di vita. Il malato sa che, se si adatta, potrà vivere bene e abbastanza a lungo, anzi – e questo èessenziale per la speranza – la morte è un termine lontano, impreciso, e quindi continua a essere un’idea astratta. La speranza nella cura va avanti a vele spiegate e spesso si tende fino alla speranza della guarigione.
Basta poco però, perché un sintomo lo allarmi e, se l’accertamento lo conferma, precipiti dal mondo dei sani a quello dei malati. A volte la speranza di tornare indietro non demorde, trova sostegno nelle evidenze della medicina, che dicono che se ne verrà fuori presto e si tornerà alla propria vita nel mondo dei “sani”, per lungo tempo, ancora, certo, se ci si cura come “malati”.
A volte la speranza è più debole: si tornerà, certo, ma con una qualità di vita diversa, più bassa. È ancora speranza o è, piuttosto, paura, qualcosa che può condurre a quel rifiuto delle cure, anche di quelle necessarie alla vita, che ora è consentito dalla legge del 22 dicembre 2017, n.219,“Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”?
Dipende: dietro la piccola o grande speranza della qualità della vita che ci attende può esserci un’altra speranza, quella dell’amore con cui saremo curati, una speranza che abbatte le mura, che rompe l’isolamento. L’essenziale della speranza di chi è malato, ma anche di chi è sano, se ci pensate un attimo, è avere qualcuno accanto che si prenda cura fino all’ultimo della nostra vulnerabilità, riuscendo a farcela avvertire non come un peso solo nostro, ma come un segno comune dell’umana, fragile dignità.
È questo l’oggetto segreto della speranza. Un amore che dà luce alla vita anche quando ogni umana, concreta,speranza sembra cedere. Gabriel Marcel distingue nella sua Fenomenologia della speranza tra “l’io spero che”, la speranza che ha un oggetto determinato, e “l’io spero”, una speranza senza oggetto. Potremmo dire: tra speranza della guarigione, di questa o quella cura, e la speranza che non ha un oggetto definito, che spera in tutto e in niente.Diremmo meglio, che spera l’essenziale: che la vita abbia un senso, così come la morte, che la vita comprende in sé. Un senso che, anche quando tutto passa, e il vanitas vanitatum del Qoèlet sembra inesorabile, rimane a dar luce alla nostra vita, un significato dei significati, che un grande filosofo – teologo del Novecento, Romano Guardiniidentificava con l’amore.
E chi non ha nessuno che lo ami? Chi, nel mezzo delle prove più dure che la malattia riserva, non ha nessuno che lo curi? Come può continuare a sperare?
Madre Teresa, mi piace chiamarla così, anche se ora è santa, perché mi sembra che la sua santità sia racchiusa, compresa nella sua maternità, raccoglieva e curava i malati soli per le vie di Calcutta, dava loro speranza anche quando erano terminali. Quale speranza? Quella del suo Signore, che prendeva in prestito le sue braccia.
Ho sempre pensato che Gesù, dopo aver passato tanto tempo della sua vita a guarire i malati, rivestendo i panni del Christus medicus, vedendo che c’era tanto, troppo, da fare, abbia scelto la croce per accoglierli tutti: quelli del suo tempo, quelli di ogni tempo, dando a ognuno di loro quella che San Paolo chiama la “spes contra spem”.
Lourdes è, come dice Benedetto XVI nella splendida Enciclica Spe salvi, uno dei luoghi della speranza. Uno dei più preziosi. Ogni malato arriva con la sua piccola speranza, di guarigione o di cura, “l’io spero che” di Marcel; alcuni, pochi, ottengono il miracolo; molti pregano per sé ma anche per gli altri, per i più gravi, i più deboli, i più piccoli; ma, tutti, respirano la speranza, quella che ha come oggetto l’amore infinito di Cristo, e che riluce nella grotta, nell’immagine dolcissima di sua Madre, la prima che in quell’amore e in quella speranza ha creduto.