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di Marinella Ruggeri
I dati epidemiologici sono in continuo aumento, pur restando ancora sottovalutati, poiché, molti restano sconosciuti e pertanto non afferiscono a questi registri.
In atto, quelli noti sono 700 mila malati di AD che ammontano ad 1milione e 200, se si comprendono tutte le demenze.
L’OMS lanciando l’allarme, prevede con ragionevole certezza che nel 2040 queste malattie rappresenteranno una emergenza mondiale; l’Italia sarà il quarto paese al mondo.
A mio parere, DUE sono i punti principali da evidenziare e, sui quali bisogna lavorare per favorire delle strategie per affrontare al meglio questa patologia che ha risvolti sociali, economici, politici, oltre che sanitari e familiari.
Il PRIMO punto è la diagnosi precoce, che resta ancora, una utopia, perché i pazienti vengono sottovalutati e progrediscono gradualmente arrivando negli ambulatori specialistici quando già sono in fase avanzata. Quando sono in questo stadio, il soggetto non ha più capacità cognitive sufficienti a mantenere il suo ruolo di protagonista del suo percorso, pertanto le decisioni su di lui è costretto a prenderle qualcun altro, e questo non è corretto, né per il paziente che non può AUTODETERMINARSI, né per il caregiver costretto ad assumersi responsabilità spesso gravose.
Ecco perché su questo punto bisogna lavorare, già molto tempo prima, quando l’attenzione, si riduce, quando compaiono se pur lievi deficit di memoria a breve termine; quando si intravedono difficoltà a memorizzare ciò che si legge, il contenuto di un film appena visto; quando la capacità di pianificare la giornata, il proprio lavoro e persino gli hobby, si rivela più faticosa; quando si scherza sul fatto che non si ricordano i nomi delle persone. Questo stadio della patologia, proprio in virtù del fatto che l’insight è ancora presente, induce deflessione del tono dell’umore e un certo rallentamento. E’ ALLORA che bisogna intervenire, con la stimolazione cognitiva multinsensoriale e ove possibile con una terapia farmacologica che possa rallentare il decorso dopo adeguato videat clinico-testistico psicodiagnostico e se possibile, neuroradiologico con PET-amiloide .
Il SECONDO punto è costruire , all’interno delle Aziende Sanitarie Provinciali distrettuali, dei PDTA mirati alla corretta ed efficace presa in carico territoriale dei soggetti e delle loro famiglie, tramite un lavoro che vede coinvolta una rete multidisciplinare, ove al cospetto di un numero sempre minore di medici, SOLO la rete, consente di accogliere e accompagnare questi soggetti. Pertanto bisogna creare una equipe formata da fisioterapisti, logopedisti, terapisti occupazionali per un prezioso percorso riabilitativo ancora più efficace se le competenze messe in atto si arricchiscono di una formazione in arteterapia specie musicoterapia, danzaterapia, pittura e disegno; nutrizionisti per una dieta a base di antiossidanti; psicoterapeuti che attraversano i gruppi agape, insegnino nuove strategie di comunicazione con il paziente, per alleggerire il carico e anche affievolire il malessere che deriva dall’impotenza del caregiver di fronteggiare questo stato in cui il proprio congiunto appare così diverso, spesso ingestibile.
In questo lavoro ,non bisogna dimenticarsi dei luoghi che svolgono poi un ruolo sociale pedagogico, come la scuola dove spiegare ai ragazzi, spesso nipoti, di questi pazienti, cosa sia questa malattia e come imparare un linguaggio nuovo, spesso tattile, per aiutare i propri cari;
anche i circoli di incontro o le associazioni, possono avere un ruolo, perché al loro interno può capitare di trovare potenziali pazienti che ascoltando quale sia la modalità di presentazione, a volte subdola, di queste malattie, potrà attenzionare l’eventuale comparsa di alcuni lievi disturbi, a cui non si era data importanza, e così, chiedere aiuto in tempo. Questa consapevolezza potrebbe favorire il primo punto ossia la diagnosi precoce, sia per scelta del soggetto che di un potenziali caregiver che riscontrando queste difficoltà nel proprio caro, si sente più stimolato a convincerlo a rivolgersi al proprio medico di famiglia, che, a sua volta, avendo a disposizione un PDTA, potrà accelerare la presa in carico specialistica territoriale.
Sarebbe auspicabile, già nel 2024, riflettere insieme, ognuno, nel posto che occupa, su questi punti, per poter incidere se non significativamente sulla riduzione di questi numeri, comunque su una gestione migliore di questa malattia che, per le sue sfaccettature, ci coinvolge tutti.