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Quasi tutti ne hanno sentito parlare (95%), la metà (50%) ha avuto esperienza diretta o indiretta, ma solo il 64% degli italiani intervistati dice di essere ben informato sulla radioterapia. Si tratta però di conoscenze confuse, come emerge dalla ricerca AstraRicerche-AIRO in cui solo il 41% pensa che a somministrarla sia sempre un medico oncologo e più della metà che si diventi radioattivi dopo un trattamento (52%), precludendo anche la possibilità di svolgere le abituali attività quotidiane, sesso incluso
Milano, 21 giugno 2024 – Quella degli effetti collaterali della radioterapia è un’eredità difficile da scalfire e che gli italiani portano con sé da molto tempo.
Lo confermano i risultati dell’indagine AstraRicerche per AIRO (1) presentati durante il 34°Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana di Radiologia e Oncologia Clinica (AIRO) nell’ambito del 1° Congresso Congiunto delle Società Scientifiche nell’Area Radiologica in corso a Milano (21-23/6).
Colpisce che poco più della metà degli intervistati (50,5%) abbia avuto un’esperienza diretta o indiretta con la radioterapia, chi per malattia di familiari (25%) o di amici e conoscenti (22%), ma, nonostante questo, la percezione del trattamento è poco chiara e gravata da numerosi falsi miti, da cui AIRO vuole partire per intervenire con un processo di educazione e formazione sulle persone.
“L’identikit emerso rafforza la necessità di un’informazione corretta e capillare sui benefici e sulle modalità della radioterapia che hanno subito un’incredibile evoluzione. Il Congresso Nazionale attualmente in corso rappresenta un momento di confronto su temi cruciali per il futuro della radioterapia in Italia, con l’obiettivo non solo di migliorarne gli obiettivi di cura, ma anche di rafforzare il legame con l’oncologo radioterapista. Potremo dichiararci soddisfatti – precisa Marco Krengli, Presidente AIRO, Professore Ordinario di Radioterapia all’Università degli Studi di Padova e Direttore della UOC di Radioterapia dell’Istituto Oncologico Veneto, IOV – quando verrà superata la percezione distorta del nostro ruolo emersa nell’indagine. Sebbene il 77% creda che il radioterapista lavori a stretto contatto con medici oncologi, solo il 41% sa che non è sempre un medico oncologo e lo identifica con un tecnico altamente specializzato. Questa confusione può portare a sottovalutare l’importanza del radioterapista e il suo fondamentale contributo nel percorso di cura del cancro. È pertanto essenziale promuovere una migliore comprensione e riconoscimento delle competenze e dei ruoli specifici per valorizzarne appieno il valore e migliorare la fiducia e l’efficacia del sistema sanitario”.
FALSI MITI: DIVENTI RADIOATTIVO (52%), NO CIBO (48%), NO AUTO (65%), NO SEX (67%)
La paura più diffusa riguarda la persistenza di radioattività nel corpo dopo il trattamento: solo 1/3 degli intervistati (38,2%) sa che la radioterapia non lascia traccia di radioattività, mentre oltre la metà (51,8%) crede erroneamente che il trattamento possa rendere il paziente radioattivo per un certo periodo. Numerosi anche i timori riguardo alle possibili limitazioni alla vita quotidiana dovute alla radioterapia. Solo il 52,2% pensa che dopo una seduta di radioterapia si possa mangiare normalmente, mentre percentuali più basse ritengono di poter continuare a lavorare (41,5%), guidare (35,5%), fare attività fisica (32,7%), o avere una vita sessuale normale (32,6%) senza restrizioni, indipendentemente dal distretto trattato.
“Queste false credenze possono causare inutile ansia e isolamento sociale per i pazienti sottoposti a radioterapia. È fondamentale educarli sul fatto che, salvo indicazioni cliniche specifiche – prosegue Antonella Ciabattoni, segretario alla Presidenza AIRO, radioterapista oncologo dell’Ospedale San Filippo Neri, ASL Roma 1 – la radioterapia non limita significativamente la loro vita quotidiana ed eventuali modifiche alle abitudini saranno raccomandate solo se strettamente necessarie in base alla risposta individuale al trattamento. Per questo motivo è essenziale ricordare che la comunicazione, specie in una disciplina altamente tecnica come la nostra, va considerata tempo di cura”.