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La “seconda ondata”: cosa è stato fatto e cosa poteva essere fatto

La “seconda ondata”: cosa è stato fatto e cosa poteva essere fatto

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di Domenico Cucinotta

Professore Ordinario f.r. di Medicina Interna

Al di là delle inevitabili polemiche di questi giorni sul fatto che la “seconda ondata” (o è ancora la prima?) della pandemia da COVID-19 ci ha colto più o meno impreparati, c’è la constatazione che la situazione sanitaria del nostro paese (ma anche degli altri paesi che non stanno meglio di noi) nel periodo che va dalla fine del lock-down ad oggi non è granchè migliorata. Se infatti è vero che sono aumentati i posti letto in terapia intensiva e la dotazione di reagenti ed apparecchiature per processare i tamponi naso-faringei e sono state create le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA), è anche vero che poco o nulla è stato fatto per migliorare la gestione territoriale ed ospedaliera della pandemia nelle sue forme meno gravi, che oggi sono quelle che più impegnano il sistema sanitario.

Un primo problema è rappresentato dal fatto che il tracciamento, elemento basilare di prevenzione della diffusione del virus, è assai difficoltoso: l’app Immuni è poco utilizzata o, quando funziona, spesso non trova sul territorio una risposta immediata da parte delle strutture preposte, che a loro volta lamentano carenze di personale che rendono difficile anche il tracciamento con mezzi tradizionali. La cosiddetta “quarantena fiduciaria”, fondamentale per l’isolamento dei soggetti positivi asintomatici o paucisintomatici, molto spesso lascia il tempo che trova: tanti non hanno la possibilità materiale di isolarsi veramente e continuano a diffondere, inconsapevolmente e inevitabilmente, il virus. E dire che ci sono alberghi o altre strutture ricettive vuote, che avrebbero potuto essere utilizzate a questo scopo (come avviene in altri posti), dando anche sollievo alle asfittiche casse dei gestori.

La medicina del territorio è rimasta nelle condizioni in cui era prima della pandemia: pochi medici di medicina generale (interi paesi nell’entroterra ne sono privi), sovraccarichi di lavoro e spesso carenti di dispositivi di protezione individuale o costretti a procurarseli personalmente, che adesso devono affrontare anche il carico della vaccinazione anti-influenzale e (speriamo) presto anche quello del vaccino per il Covid-19. Le USCA sono poche, di fronte ad una richiesta che aumenta in maniera esponenziale.

Per quanto riguarda la situazione ospedaliera, va registrato positivamente l’aumento dei posti letto di malattie infettive e di malattie respiratorie ma rimangono e anzi si sono accentuate le carenze dei posti in medicina generale/medicina interna, le cui risorse (soprattutto umane) sono state spesso dirottare verso le strutture Covid, nel momento in cui la richiesta di cure ospedaliere, causa le già citate difficoltà della medicina del territorio, aumenta.

Il vero problema infatti, e concludo, a tutti i livelli sopra descritti è proprio quello delle risorse umane: sia sul territorio che in ospedale, nei reparti non intensivi e in quelli intensivi, si registrano gravi carenze. A che serve creare laboratori o aumentare i posti letto di terapia intensiva se non c’è sufficiente personale, medico e sanitario non medico, per farli funzionare? Per tracciare, testare e trattare occorrono anche e soprattutto le persone, oltre agli strumenti e quel poco che si

è fatto in questi mesi già adesso non appare sufficiente. Si poteva e si doveva fare di più e c’era il tempo per reclutare e formare, almeno per il minimo indispensabile. Non si vincono le guerre senza gli eserciti…!