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di Salvo Rotondo
Luca Sofri (il direttore del Post) afferma che quando negli stati uniti avviene una sparatoria con uno o più morti e feriti, con la cattura in flagranza di reato del killer, in gran parte dei giornali americani quell’individuo viene etichettato come “suspected”.
Questo perché c’è un sacro rispetto della presunzione di colpevolezza che in certi casi, soprattutto con i nostri occhi, potrebbe sembrare persino esagerata. Ma un indice di civiltà impone che fino a quando un individuo non viene condannato in maniera definitiva, indipendentemente da ciò che si conosce dei fatti, anche se in presenza di prove documentali che inchiodano al di là di ogni ragionevole dubbio il sospettato.
Mattia Feltri, sulla Stampa, pone la lente di ingrandimento sulla metodologia di narrazione delle notizie tragiche, comparando le modalità comunicative tra i giornali italiani e quelli danesi. In Italia si stacca un pezzo di ghiacciaio della Marmolada che provoca morti e feriti, in Danimarca un folle spara in un centro commerciale di Copenaghen provocando anche lì morti e feriti. Sui giornali italiani si ricerca subito il colpevole, in Danimarca si spiega che l’assassino era già noto ai servizi psichiatrici ma polizia, magistrati, politici e mass media preferiscono non commentare. In Italia vengono diffusi i dati anagrafici e delle vittime, le professioni, le abitudini, le loro capacità di affrontare la montagna, si attingono dai social le notizie delle loro vite concluse, le foto, i selfie, l’ultimo filmato postato per poi darle in pasto all’opinione pubblica sui mass media da dove, poi, essere rilanciate sui social. Si interrogano i soccorritori per sapere se i loro corpi erano straziati, quanto erano straziati, quanto era possibile riconoscerli, in quanti pezzi erano stati smembrati, se avessero mai visto nulla del genere, se si fossero mai immaginati di vedere niente del genere. Si interrogano i parenti, si chiede loro quanto sono scioccati, si descrive se urlano, se non urlano, se piangono, se non piangono, se sono distrutti, se affrontano il dolore con dignità, con quali parole il prete tenta di confortarli, come si confortino l’un l’altro, e se siano sufficienti le parole a confortarli.
In Danimarca il giudice inquirente ha raccomandato di non diffondere le generalità né dei feriti, né dei morti, né dell’assassino.
In Italia l’informazione, in queste occasioni, è una sarabanda di spettacolarizzazione, in altri paesi, per questo sicuramente più civili, l’informazione è Informazione.
Nel novembre del 2021 pubblicavamo su Messina Medica 2.0 una riflessione dal titolo “Quando un medico viene accusato di malpractice” nel quale si faceva rilevare come la medicina non possa essere considerata una scienza esatta perché sono infinite le variabili che ne influenzano l’espressione e l’evoluzione, nonostante chi la esercita utilizzi scienze che possono essere definite, al contrario della medicina, “esatte”. E questo perché la medicina, quale Arte empirica, ha ottimi margini di precisione ma ogni uomo è un unicum nella sua individualità e nella sua capacità di rispondere al mondo che lo circonda e che dall’esterno con lui interagisce (vedi malattie o terapie).
Nella logica dell’uomo della strada, però, viene instillata la convinzione che, grazie alla magnificenza delle conquiste tecnologiche e delle terapie sempre nuove e innovative sbandierate dai mezzi di comunicazione, bisogna aspettarsi da qualunque terapia medica o chirurgica un risultato sempre favorevole. Questa distorsione cognitiva porta alla mancata accettazione del risultato disatteso e per tale ragione l’esito imprevedibile ed inevitabile diventa malasanità. La naturale, anche se esecrabile conseguenza è la reazione di difesa del medico che, alla stessa stregua dell’arco riflesso, produce degli effetti che si vedono prima del passaggio al cervello e quindi della consapevolezza degli effetti. Questi apparentemente cercano di proteggere da problematiche medico-legali negative ma producono danni articolati innanzitutto alla dignità del medico, ma, in pratica e in solido, al paziente ed alla società di cui anche quest’ultimo fa parte.
Come abbiamo visto la spettacolarizzazione dell’informazione, oggi in Italia, porta a disinteressarsi delle conseguenze di una iniziativa pubblica così apertamente aggressiva nei confronti di un professionista, senza curarsi se foto sui mass media e sui social, i dettagli e le insinuazioni pruriginose della vicenda incriminata possano determinare un danno all’interessato e a tutta la sua famiglia (figli, coniuge e parenti in generale). Il processo sui mass media in real time si attua spesso attraverso dettagli e materiali informativi decontestualizzati che proiettano il processo giudiziario su un enorme schermo mediatico che determina l’esposizione al pubblico ludibrio del professionista ancor prima dell’avviso di garanzia.
Però l’elevata percentuale di azioni legali che si risolvono in un nulla di fatto in fase di istruttoria o al fine del percorso giudiziario stanno a indicare che in oltre nove casi su dieci un innocente è stato condannato dalla gogna mediatica con conseguenze irreversibili e inquantificabili in termini economici che lo segneranno, spesso insieme ai propri familiari, per tutta la vita condannandolo “al di qua di ogni ragionevole dubbio”.