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Il referendum manda in tilt il Parlamento

Il referendum manda in tilt il Parlamento

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di Mario Primo Cavaleri

Referendum, niente più assembramento anche in Parlamento. Quando tra due anni ci saranno le Politiche ne eleggeremo 345 in meno (confidiamo senza mascherina, ossia scelti da noi) contribuendo all’alleggerimento delle due Camere. Non è un problema di risparmio ma di volontà popolare, coerenza, efficienza, etica pubblica che ha fatto scattare nel 70% dei votanti la voglia di semplificare, svecchiare uno status anacronistico, migliorare qualità e livello dei pretendenti allo scranno. Etichettare il risultato come vittoria dei “grillini” significa non aver capito nulla, essere distante dal comune sentire, e ci domandiamo come potesse esserci ancora alla vigilia qualcuno speranzoso nella prevalenza dei “no” facendo leva sulla bassa affluenza e sulla convinzione che chi si fosse recato alle urne lo avrebbe fatto per bocciare la riforma.

Val la pena ricordare che siamo andati a votare perché la Carta costituzionale è protetta da un meccanismo complesso, delineato nell’articolo 138 con il quale si prevede che per cambiare la Costituzione e le leggi costituzionali occorrano: due successive deliberazioni di Camera e Senato, ad intervallo non inferiore a tre mesi l’una dall’altra; l’approvazione in seconda deliberazione, da parte della maggioranza assoluta di Camera e Senato. Se nella seconda deliberazione non vengono raggiunte le maggioranze richieste la legge non viene approvata. Se invece è raggiunta una maggioranza non superiore ai 2/3 dei componenti di ciascuna camera, la modifica viene sottoposta a referendum popolare. Siccome il disegno di legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, non aveva superato i 2/3 della maggioranza nella seconda deliberazione al Senato avvenuta l’11 luglio del 2019, ecco allora la consultazione popolare.

Dunque la maggioranza degli “onorevoli”, in modo trasversale, si era pronunciata a favore della riduzione salvo pentirsene in modo sempre trasversale strada facendo. Ora la vittoria del sì tonifica una riflessione più ampia sul come i partiti hanno ridotto la politica nell’ultimo trentennio: una picconata dopo l’altra alla Costituzione e mai con una visione d’insieme capace di restituire dignità agli elettori, di garantire equilibrio tra i poteri (vedi, da ultimo, il caos Covid tra le Regioni), di elevare la qualità della rappresentanza parlamentare. Abbiamo assistito a uno scadimento progressivo da rendere le due Camere un inutile votificio subalterno alle indicazioni dell’Esecutivo a colpi di fiducia, di guisa che ridurre il numero di deputati e senatori è stato ovviamente percepito come un primo utile rimedio, non universale tuttavia ininfluente sull’architettura democratica se irrilevante è stato reso il ruolo del Parlamento e di chi lo abita fino a non essere più tribuna di elevato dibattito e di deliberazioni a beneficio della collettività ma germe di sprechi, sicché tagliare 345 poltrone con il contorno decuplicato di portaborse, yesman e indennità a pioggia è apparso non solo auspicabile ma doveroso.

“Ne risentirà la rappresentanza dei territori” avvertiva preoccupato il Comitato del No: uno dei tanti slogan poco intelligentemente usati per persuadere. Di quali istanze, infatti, si sono resi interpreti finora gli “onorevoli” del Sud che in numero copioso hanno fatto ingresso a Montecitorio rimanendovi per svariati lustri, se Sicilia e Calabria erano e sono rimaste ultime regioni in Europa? Da mezzo secolo si parla di Ponte e tutt’oggi non c’è un solo deputato che in Parlamento si sia

alzato per urlare la vergogna nel non avere intanto neppure una scala mobile nelle stazioni ferroviarie dello Stretto! Scandalosa realtà fatta di mille e mille piccole o grandi cose che evidentemente non ha trovato rappresentanza.

Tagliare il numero dei seggi risolverà qualcosa? Probabilmente no se non si interverrà sull’altrettanto fondamentale legge elettorale: siamo gli unici in Europa ad averla cambiata più volte e il Quirinale ha sempre chiuso un occhio; un continuo modificare le regole voluto dai partiti che sono il vero morbo del sistema finché continueranno a essere strutturati come associazioni private o padronali, con un capo magari non eletto da nessuno cui però rispondere pur di tornare a essere in lista e non andare a casa. Così nell’immaginario collettivo molti parlamentari hanno finito per dare di sé una plastica rappresentazione della metafora di Trilussa sull’Uno e lo zero: “ … a un dipresso è quello che succede ar dittatore che cresce de potenza e de valore più so’ li zeri che je vanno appresso”

Meno parlamentari significa meno zeri appresso, maggiore possibilità di controllarli? Probabilmente sì.

Il numero minore garantirà dalla prossima legislatura migliore funzionamento? Dubitiamo, se non si restituirà agli elettori la scelta così da sottrarre gli eletti al nepotismo dei leader e se non si riuscirà a pretendere nomi credibili in lista che non siano i soliti servizievoli o di lungo, interminabile corso (salvo poi a essere bocciati dalle urne, vedi Fitto in Puglia o Caldoro in Campania).

Il responso sul referendum potrebbe avere un primo effetto immediato: oltre a turbare il sonno di chi paventa un addio ai palazzi romani forse farà scattare, in questo scorcio di legislatura, l’attenzione verso il proprio territorio di riferimento elettorale. Ma il voto pone pure un gran dilemma amletico per il Colle sull’essere o non essere, agire o non agire: se infatti sarà l’attuale Parlamento (che nella sua composizione non rappresenta più il Paese) a eleggere il nuovo Capo dello Stato quale legittimazione avrà il prossimo Presidente della Repubblica che rimarrà in carica sette anni? Nulla quaestio sul profilo costituzionale, qualche riserva sul piano politico.

Per il resto, i commenti delle prossime settimane serviranno solo a distrarre dai veri problemi che rimangono quelli dell’economia, delle infrastrutture, della ripartenza dopo un periodo difficile che ha azzoppato ancor più il Sud mentre si attende di sapere quali progetti entreranno nel Recovery Fund, ultima opportunità di salvezza che dovrà gestire l’attuale Governo, il primo nella storia della Repubblica a trovarsi d’un colpo davanti a una messe enorme di risorse finanziarie (che si vedrà poi come, quante e quando dovranno essere restituite) ma intanto in arrivo nella disponibilità di cassa e queste sì destinate ad agitare vari ambiti. Ma di cui non si sa nulla.

Fra un paio di settimane, il 4 e 5 ottobre, sarà la volta delle Amministrative in Sicilia col coinvolgimento di due capoluoghi di provincia (Agrigento ed Enna) e di diversi centri importanti come Ribera, Barcellona Pozzo di Gotto, Milazzo, Giardini Naxos, Carini, Misilmeri, Partinico, Termini Imerese, Villabate, Ispica, Augusta, Floridia e Marsala. In tutto sono 61 i comuni siciliani sul totale di 390, quindi poco più del 15% che rappresenta un bel banco di prova (turno di ballottaggio il 18 e 19 ottobre), primo confronto dopo l’avvento di Musumeci a Palazzo d’Orleans, la nascita di nuovi simboli, la disaggregazione di altre formazioni e soprattutto dopo la vicenda Covid che ha causato lo slittamento del turno elettorale originariamente previsto in primavera.