Views: 230
di Giuseppe Ruggeri
“Messina tra macerie e incanti” di Giuseppe Ruggeri, con prefazione a cura di Sergio Di Giacomo, è una raccolta di articoli, conferenze e introduzioni che l’Autore ha collazionato e stampato in proprio, per offrire ai lettori uno spaccato di vita cittadina ripercorso attraverso personaggi, libri ed eventi della sua storia. Ma anche attraverso i numerosi musei, presenti in città e dintorni, testimoni della memoria cittadina. Una memoria segnata da grandi catastrofi ma pure dalla tenace volontà di risorgere dalle proprie ceneri dopo ogni disastro.
Parecchie ancora, a Messina, le “macerie” di tante distruzioni, dietro le quali, però, occhieggiano altrettanti “incanti” che un occhio innamorato, come quello dell’Autore, non può non cogliere e far assurgere a simbolo dell’auspicato rinascimento di un’Urbe che fu un tempo – così come la definirono i nostri padri Latini – “civitas locupletissima”.
Siamo alla seconda ristampa del volume “Del cucinare in riva allo Stretto” di Nino Sarica. Pubblicata per la prima volta nel 2003 dalla Società Messinese di Storia Patria, la sapiente raccolta di 73 ricette della tradizionale cucina peloritana curata da Sarica era ormai quasi introvabile. 115 pagine suddivise in sezioni (pesce, legumi e altri ortaggi, piatti particolari) che hanno raccolto il pieno consenso dei messinesi, evidentemente innamorati delle proprie origini, quantomeno gastronomiche.
Il libro attinge direttamente dall’esperienza culinaria della madre dell’autore la quale, secondo il racconto dell’autore, poco prima di passare a miglior vita ha minuziosamente ricopiato le sue ricette in un quaderno, esortando il figlio a pubblicarle.
Ne è seguita la realizzazione della preziosa silloge di matrice e sapore tipicamente messinese, che ha riportato in auge piatti sulla soglia dell’oblio come la “pasta ncasciata”, le “braciole di carne”, il “ciusceddu” e tanti altri. Note di colore rese ancor più vivaci dai contributi di Todesco e Trimarchi,
quest’ultimo autore di una dotta dissertazione sulla preparazione dei piatti a base di pescespada e pescestocco, due autentiche icone della tradizione ittiologica peloritana. Un contributo, quello di Sarica, storica firma della “Gazzetta del Sud”, che rafforza la necessità di promuovere le risorse materiali e immateriali del nostro territorio, pena l’inevitabile esclusione del nostro più genuino “know-how” dai grandi circuiti di sviluppo turistico-economici.
Non sembra superfluo, a riguardo, menzionare che la tradizione gastronomica locale rappresenta un utile metro di valutazione della cultura di una comunità. La cucina fa da sempre parte integrante degli usi e delle tradizioni locali, costituendone una naturale appendice che non può essere in alcun modo svincolata dal complesso delle caratteristiche etnoantropologiche che vi sono rappresentate.
Messina, in particolare, affetta da anni da una grave crisi d’identità, necessita, a giudizio di chi scrive, di un recupero memoriale costante mirato a far emergere talune specifiche peculiarità che l’hanno resa tipica nei secoli e ancor oggi, sulla medesima scia, contribuiscono a definirne la cifra dominante. Sicché la riproposizione dell’agile volume di Nino Sarica ha senz’altro il merito di rivalutare, in termini
tanto d’importanza quanto di legittima dignità d’appartenenza, il colorito e composito retaggio gastronomico peloritano. Un’eredità fatta non solo di materie prime ma di anche dei gesti e delle storie che vi stanno sottese, e che attraversano silenziosamente il corso dei millenni, conferendo dimensione e significato al nostro vivere civile.
C’è una Messina avvolta nella nebbia di un ricordo che a tratti si fa struggente e solitario come un dolore usato e mai dismesso nelle pagine di “Addio fantasmi” (Einaudi, 2018) di Nadia Terranova. E c’è soprattutto, in questo bel romanzo, la nostalgia di una città mai dimenticata e che ritorna, nell’immaginario narrativo, a svolgere un ruolo preponderante nell’esistenza della protagonista. Una città profondamente viva, sebbene a volte solo intravista di sfuggita da una finestra o anche da un balenare di memorie che subito dileguano, è la Messina che appare e dispare dalle maglie di un racconto in cui autobiografismo e alterità si mescolano di continuo, in un dialogo costante tra passato e presente.
Messina si diceva. Poiché la città, per noialtri che la abitiamo e viviamo, non può che essere Messina, con le sue larghe vie che si spalancano oltre la cortina del
porto, le guglie delle sue chiese che svettano come pinnacoli dinanzi ai passeggeri dei traghetti che stanno per approdarvi, il profilo dolce e accattivante delle colline circostanti. Una città rivisitata dalla Terranova a iniziare dalla stessa casa della protagonista del romanzo, ubicata in quella parte di territorio urbano che resta alle spalle del lungomare di via Libertà. La dolorosa scomparsa del padre, fuggito di casa molti anni prima e del quale la protagonista e la madre non hanno mai avuto notizie, pesa come un macigno sull’armonia di quei momenti felici.
E, in tutto il suo disincantato squallore, trova spazio nelle pagine finali del romanzo anche la degradata periferia di Maregrosso, dove la protagonista si reca insieme a un amico che ivi le confida il dramma di un amore sfociato nella tragica morte della compagna. La casa del Puparo – il castello del cavaliere Cammarata affogato nel ciarpame di una zona votata alla colpevole dimenticanza delle istituzioni – campeggia sullo sfondo di un dialogo malinconico che affida al non senso della vita il significato di ogni cosa.
E’ una Messina, insomma, che si accende e si spegne come il faro di un semaforo lampeggiante quella che emerge dalle pagine di un romanzo fortemente
identitario, segnato da un tenace senso d’appartenenza a persone e luoghi. Attraverso un uso sapiente dei registri narrativi di cui è dotata, la Terranova riesce a ripercorrervi, con lo stile asciutto ed elegante che l’è proprio, la planimetria del proprio mondo interiore specchiato nella sua città d’origine. Restituendoci una Messina la cui quotidianità è scandita dal ritmo piano e incessante del ricordo.
La Messina che si reinventa all’indomani del grande sisma del 1908 vibra forte nelle pagine de “Il mare nei muri” (Amendolia G., Cavallaro M., Rao I., Riccobono F.) Edas, 2019), un libro scritto a più mani eppure con un’unica – e irriducibile – tensione verso la Bellezza. Nel segno di tanta Bellezza, Messina ha saputo rinascere, novella araba fenice, dalle ceneri di ciò che è stato e che non può – né deve – esser dimenticato, ma piuttosto celebrato in forma nuova. Perché il passato, con i suoi simboli e archetipi, vi continua a segnare la linea di viaggio, illuminando i nostri passi verso il futuro.
E i simboli e gli archetipi di Messina – la più antica tra le colonie greche fondate in Sicilia – non possono che originare dal mare che la bagna, e sulle cui sponde i Calcidesi, in epoca antecedente la stessa fondazione di Roma, insediarono il primo nucleo
abitativo della città. Una città che ebbe nome di Zancle per la curiosa conformazione a falce di quello che sarebbe diventato il porto più importante del Mediterraneo, centro di scambi e osmosi tra popoli, culture, retaggi. Il mare di Messina, piace sempre ricordarlo, è cantato perfino da Omero che le sue acque “colore del vino”, e infestate da mostri e miraggi, fece traversare a Odisseo sulla rotta di ritorno verso Itaca.
Mare, mare e ancora mare. Che “unisce e divide” (J.L. Borges), sommando in sé l’eterna contraddizione tra il partire e il restare. Ponte d’onde teso tra mito e storia, tra illusione e realtà, lo Stretto non finisce di stupire per il ventaglio di meraviglie che continua a esibire agli studiosi del suo complesso ecosistema – una tra tutte la stupefacente fauna dei pesci abissali – e a quanti hanno riportato alla luce autentici pezzi di storia antica, come il rostro romano ripescato al largo di Capo Rasocolmo.
Un mare che diviene potente fonte d’ispirazione per artisti, scultori, architetti, i quali hanno ridisegnato di sana pianta Messina dopo la catastrofe del 1908. E che è poi lo stesso mare che, sollevato dall’onda di maremoto, si era arrampicato sulla Palazzata inondando vie, larghi, piazze e seminando ovunque morte e distruzione. Sulla traccia lasciata dalle
migliaia di pesci e conchiglie e macerie che quell’onda feroce aveva sparso in modo ubiquitario nel tessuto urbano, ha potuto così assumere corpo una città nuova, ma dal cuore antico.
Quattro itinerari – “Strada Maestra”, “Via Ferdinanda”, “Piano Mosella”, “Fuori le mura” – rappresentano le direttrici di un’escursione singolare e decisamente affascinante tra fregi, frontoni, capitelli che inneggiano alla vita ritrovata nel segno della Bellezza. L’arte, mimesi sublime che avvicina l’uomo al suo Creatore, è la chiave di volta per capire che, in fondo a ogni devastazione, si agita sempre il germe della rinascita. Morire deve, peraltro, il seme per dare il suo frutto e così è avvenuto anche per Messina proprio quando, moderna Atlantide, essa sembrava destinata a essere seppellita per sempre sotto uno spesso strato di calce.
E non è successo altrettanto, forse, per il Val di Noto atterrato dal tremendo sisma del 1693 che ne cancellò la storia, e poi ricostruito dagli artisti del Barocco i quali ne ridisegnarono da cima a fondo l’impianto urbanistico sbozzando dal tufo delle sue cave, palazzi, chiese e monumenti la cui sontuosità e magnificenza mozza il fiato?
Il cuore della Messina che trova la forza e la passione di ricostruirsi batte nei prestigiosi palazzi che
l’eclettismo del tempo ha guarnito dei simboli del mare – pesci, conchiglie, prue di navi – i quali sono poi i simboli universali dell’umanità, racchiudendo in sé i significati più profondi dell’esistenza. Palazzi che gli Autori de “Il mare nei muri” sono riusciti a descrivere con il colto e mirato dettaglio proprio di un’indagine condotta con competenza e professionalità davvero encomiabili. Ma, specialmente, con la devozione incondizionata nei riguardi di una “civitas” che – come traluce dalle splendide immagini a corredo del testo – non ha mai smesso di essere “locupletissima”.
La storia di ogni città passa sotto i suoi ponti, come un fiume destinato a non lasciare traccia. Sul greto di quel fiume sedimentano, a strati, le epoche che si succedono, ma nessuno può accorgersene perché l’acqua dilava le cose, facendole uguali l’una all’altra, omologa tutti quegli strati in un unico spessore.
Come quell’acqua è il tempo, un flusso inarrestabile di eventi governati dal disordine sotterraneo che li rende asimmetrici, apparentemente privi di significato. I fisici, che esplorano i sistemi, chiamano entropia il disordine degli eventi, la loro caotica sovrapposizione che ne cancella alcuni per farne
emergere altri, e dopo questi altri, altri ancora fino a quando non è dato sapere.
Dicono, sempre i fisici, che l’acqua ha anche una memoria, cioè una traccia che vi rimane impressa tutte le volte che questa stratificazione si forma. La memoria dell’acqua, ebbene, altro non è se non la traccia che il tempo imprime su di noi mutandola in ricordo, la capacità ovvero di fissare gli eventi che divengono così fruibili per le generazioni future.
Il progetto che nutre “Cara Messina, ti scrivo ancora …” (La Feluca Edizioni, 2020) è tutto qui. In questa memoria dell’acqua che, passando sotto i ponti della storia, filo per segno la recita come una favola, la favola dei mostri diventati correnti marine, di pescatori eroici che sostengono isole galleggianti, di sibille che declamano versi millenari a platee invisibili. Il mito che si traduce in storia in una terra che, se avara di risorse, certo non lo è di fantasia, quel tocco divino in grado di rendere bello il mostruoso, struggente il dolore, palpitante l’attesa del ritorno,
In città affacciate sul mare, elemento-simbolo per eccellenza della vita perché essa da quel mare è provenuta, l’immaginario ha preceduto – e spesso sopravanzato – la storia, e così facendo l’ha resa credibile perché, come dice Borges riguardo la
scrittura “la letteratura è la più reale delle finzioni”. E dalla finzione-storia di Messina prende mossa un volume di racconti – dieci in tutto – che altrettante penne cittadine hanno voluto collazionare seguendo il “fil-rouge” del parallelismo tra reale e irreale proiezione, il secondo, di un vero troppo spesso mascherato da false sembianze. Autori che hanno “immaginato” una Messina – passata, presente e perfino futura – vestita con gli abiti della verosimiglianza. Una verosimiglianza che la fa scintillare, proprio come una splendida dama, alla luce del sole riflessa sul “mare colore del vino” che la abbraccia.
Ed è questa l’unica sintesi possibile tra vero e non-vero, in un eterno gioco a nascondere che rende reale l’irreale e viceversa: la verosimiglianza. A Messina, ripercorsa attraverso i suoi miti che ne sorreggono la colonna piantata nella profondità dello Stretto, si sono incontrati dieci messinesi che, raccontando, hanno narrato di sé, individuando radici profonde in un substrato che l’acqua del tempo, senza il soccorso della memoria, avrebbe irrimediabilmente cancellato. Una verosimiglianza di eventi snocciolati in forma di fluida narrazione, di quadri spazio-temporali a volte reiterati grazie all’empatia che li ha condotti a ritrovarsi insieme a indagare sulle radici di cui si
diceva.
Il tutto, forse, per riprendere un discorso interrotto a metà, e così dare fiato alle tante voci che avevano smarrito l’”ubi consistam” perché travolti dal flusso impetuoso di un fiume che continuava imperterrito a scorrere sotto i ponti della nostra indifferenza, del nostro debole senso d’appartenenza civile, del nostro mancato sentimento sociale.
“Chi non ha vissuto qui, a Messina, non ha conosciuto cosa sia la dolcezza del vivere”. La citazione – di cui è autore Giovanni D’Austria, eroe della battaglia di Lepanto – è riportata nella bella prefazione di Giorgio Boatti al volume “Messina ritrovata” di Eleonora Iannelli (Edizioni della Libreria Bonanzinga, 2018). Una ristampa riveduta e aggiornata che fa seguito alla prima edizione del 2010 nella quale la Iannelli, giornalista professionista, con piglio da cronista e spirito didattico, ha ripercorso la storia di Messina dal mito ai giorni nostri. La memoria – come “trait-d’union” che salda il passato al presente – riveste ovviamente un ruolo di rilievo in quello che l’autrice definisce un vero e proprio “viaggio con la macchina del tempo”, adatto sicuramente alle giovani generazioni che poco o nulla conoscono della loro città, di quella “rassegna
d’imprese gloriose, eroi, rivolte, repressioni, guerre sante, matrimoni di stato, tradimenti, pestilenze, carestie, terremoti, ricostruzioni”. Una città segnata, è vero, da cicatrici incancellabili, ma che ha sempre avuto l’impulso e la volontà di ricostruirsi dalle proprie ceneri senza mai far prevalere la tentazione del “cupio dissolvi” sull’istinto di riemergere, splendente come e più di prima, dalle azzurre acque dello Stretto.
Se la storia è una mera successione di eventi guidati dal caso, da cui si dispiega tuttavia la ricerca di un intento educativo che induca a vivere nel miglior modo possibile la breve vicenda umana toccata a ciascuno, il volume della Iannelli coglie appieno nel segno. Nel tracciare la storia di Messina attraverso la scrittura e le immagini (pubblicate grazie al prezioso contributo di Antonio Abate e della famiglia di Fernando Carciotto), la Iannelli ne individua il “genius loci” specifico trasmettendo così un profondo senso d’appartenenza a chi legge.
Si parte così dalle origini, proprio da Zancle, quel “nome misterioso” che potrebbe risalire tanto alla mitica “falce” di Crono quanto a Zanclo, re dei Siculi che nel XV-XIV secolo a.C. si stanziò nell’area dello Stretto. Da qui a narrare gli altri, di miti, di cui abbonda la nostra tradizione, il passo è breve; su
tutti, a dominare è la leggenda di Colapesce, cantata da Maria Costa in una struggente poesia riportata in testo integrale dalla stessa Iannelli e da Renato Guttuso, che ne affrescò, com’è noto, la volta del soffitto del Teatro Vittorio Emanuele.
Il cammino della Iannelli segue poi il necessario percorso storico, dai primi insediamenti già dall’età del Rame (3.000 a.C.) nella valle di Camaro, fino ai tempi moderni. Il cuore di questa storia coincide con il periodo “aureo” della città, quello del Rinascimento messinese, quando la città, forte dei suoi 120.000 abitanti, dell’intensità dei suoi commerci marittimi e del prestigio delle sue istituzioni (Università, Zecca, Porto Franco) era considerata, dopo Napoli, la città più importante del Meridione.
Nel successivo capitolo la Iannelli ci fa “passeggiare” per i luoghi della città antica rievocandone, con l’ausilio di preziose foto d’epoca, le numerose e ricche chiese, i monumenti, e la magnifica Palazzata le cui porte collegavano il porto al centro urbano.
Ma non mancano – e il capitolo che ancora segue ne offre ampia testimonianza – i manufatti superstiti, in modo particolare le fontane (prima tra tutte la splendida fontana Orione posta di fronte alla
Cattedrale), la Lanterna di San Raineri e i forti umbertini peloritani.
Il percorso si arricchisce quindi di brevi ma intensi profili delle grandi personalità che hanno dato lustro a Messina, come Antonello, la Santa Eustochia Calafato, Francesco Maurolico, Pietro Castelli, Giuseppe Seguenza, Pietro Cuppari, Felice Bisazza, Tommaso Cannizzaro, Sant’Annibale Maria di Francia e tanti altri. Scienziati, scrittori, poeti, religiosi che hanno improntato la storia di Messina facendola conoscere a tutto il mondo e in ogni campo dello scibile umano.
A completamento di questo cammino, la Iannelli rievoca le storiche attività produttive e le industrie come la Sanderson, i Molini Gazzi e la Rodriquez aliscafi, citando infine le feste religiose e le tradizioni popolari come la storica processione delle “Varette”, la “Vara”, la Passeggiata di Mata e Grifone. Senza infine trascurare l’aspetto paesaggistico ove dominano lo Stretto, i luoghi della Riviera, i laghi di Ganzirri e i colli Peloritani.
Una sezione particolare è dedicata al nuovo Museo Regionale, da poco finalmente aperto alla fruizione pubblica, la quale costituisce un aggiornamento alla precedente edizione di “Messina ritrovata”.Messina sembra esserci proprio tutta, insomma, nelle pagine che la Iannelli consegna ai suoi lettori con l’entusiasmo di chi si sforza, anche in tempi difficili come i nostri, di educare alla passione per la propria città. Con la persuasione di chi crede che preservare il senso dell’identità urbana sia prodromo ineludibile di progresso umano e civile. Il che ci fa sperare, in un periodo forse non troppo lontano, in una dovuta ricognizione di tutte quelle “macerie” che, per forza di cose, dovranno pure mutarsi in “incanti”.