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di Giuseppe Ruggeri
“Messina tra macerie e incanti” di Giuseppe Ruggeri, con prefazione a cura di Sergio Di Giacomo, è una raccolta di articoli, conferenze e introduzioni che l’Autore ha collazionato e stampato in proprio, per offrire ai lettori uno spaccato di vita cittadina ripercorso attraverso personaggi, libri ed eventi della sua storia. Ma anche attraverso i numerosi musei, presenti in città e dintorni, testimoni della memoria cittadina. Una memoria segnata da grandi catastrofi ma pure dalla tenace volontà di risorgere dalle proprie ceneri dopo ogni disastro.
Parecchie ancora, a Messina, le “macerie” di tante distruzioni, dietro le quali, però, occhieggiano altrettanti “incanti” che un occhio innamorato, come quello dell’Autore, non può non cogliere e far assurgere a simbolo dell’auspicato rinascimento di un’Urbe che fu un tempo – così come la definirono i nostri padri Latini – “civitas locupletissima”.
E uscimmo a rivedere il mare. Fin quando il casermone grigio dalle finestre esagonali di dubbio gusto post-moderno ne nascondeva la vista, potevi solo indovinarne la distesa azzurrina oppure del colore del vino, secondo i venti. Gli spiriti più lirici riuscivano magari a vederlo davvero, cullati dai versi dei grandi poemi classici, e così facendo si abbandonavano al sogno di una città adagiata sulle onde. Bellissima, com’era stata nei secoli prima che sismi naturali e antropici la dissestassero rivoltandola dal profondo e annullandone così la storia, le tradizioni e le origini.
E uscimmo a rivederlo, quel mare agognato, sperato, vissuto all’ombra d’una nostalgia che si faceva sempre più struggente man mano che gli anni passavano e l’albero della vita metteva foglie sui suoi rami più alti. Mare di stenti e bagliori, di fatiche e trionfi, mare simbolo incarnato della “civitas locupletissima” che si era affacciata al mondo per opera dei coloni di origine greca insediatisi sulla Falce prima ancora della fondazione di Roma. Generazioni intere trascorse sul filo di una memoria collettiva che sbiadiva sempre più via via che i fumi
della contemporaneità offuscavano lo specchio che rifletteva l’ombreggiato viale Principe Amedeo punteggiato di fontane e piante secolari per la lunghezza di oltre un chilometro. Un lungomare negato per decenni in nome della più becera e palazzinara edilizia che ha riversato, negli anni, fiumi di cemento sulla piattaforma naturale più bella della città.
Rivedendolo, dopo tanti anni in cui l’avevamo solo immaginato, suscitava uno strano effetto. Affiorava da cumuli di macerie ancora da stoccare, a fatica guadagnava strada tra sterro e pietre aguzze che cercavano ancora di nasconderlo alla vista, si sporgeva dietro i brandelli del muraglione ormai spianato e, così facendo, sembrava rassicurarci che lui, dal suo luogo d’origine, non si era mai allontanato. Che era sempre stato oltre la barriera, non si era fatto intimorire dall’oscura violenza dell’uomo il quale, evidentemente, non riusciva proprio più a specchiarsi, in quel mare.
Forse perché, nel suo ombelico scuro e profondo, egli vedeva riflessa tutta la sua umana, irrimediabile fragilità.
Ed è nelle acque chiare
del tuo breve ramo di mare
che ti specchi ogni giorno
prima che la luce precipiti
e i suoni si smorzino
come un sogno a occhi aperti.
O città città
che hai il mio volto solcato
dai cerchi della vita
tua è ogni promessa
covata nella penombra
delle tante mie attese.
Tu riempi le tasche
del mio povero presente
sospeso tra i fumi
di quel che è stato
e il buco nero del dopo
mi galleggi in cuore
come una boa salvifica.
Le tue mani giunte in preghiera
linimento all’anima
perduta nella nebbia
delle sue risposte mancate.